La gente Cola pisci lu chiamava,
che comi un pisci Sempri a mari stava,
d’unni vinia nuddu lu sapia
forsi era figghiu di Nettunnu diu.

Un ghiornu a Cola "u rre" u fici chiamari
e Cola di lu mari dda vos’iri
- O Cola lu me regnu a scandagliari
supra cchi pidimenti si susteni

Cola pisci curri e va’
- vaiu e tornu maista’
"ccussi’ si ietta a mari Cola pisci
e sutta l’unni subutu sparisci

ma dopu un pocu a sta’ nuvita’
a lu rignanti Cola pisci da’
- ….maista’ li terri vostri
stannu supra a tri pilastri

e lu fattu assai trimennu
una gia’ si sta’ rumpennu
- … O distinu chi "nfilici
cchi svintura mi pridici

chianci u re comu aia ffari
sulu tu mi poi salvari.
Cola pisci curri e va’
vaiu e tornu maista’.

E passaru tanti iorna
cola pisci non ritorna

Nicola fu l'ultimo dei numerosi fratelli: viveva con la sua famiglia a Messina, in una capanna vicino al mare e fin da fanciullo prese dimestichezza con le onde. Quando crebbe e divenne un ragazzo svelto e muscoloso, la sua gioia era d'immergersi profondamente nell'acqua e, quando vi si trovava dentro, si meravigliava anche lui come non sentisse il bisogno di ritornare alla superficie se non dopo molto tempo. Poteva rimanere sott'acqua per ore e ore, e quando tornava su, raccontava alla madre quello che aveva visto: dimore sottomarine di città antichissime inghiottite dai flutti, grotte piene di meravigliose fosforescenze, lotte feroci di pesci giganti, foreste sconfinate di coralli e cosi via. La famiglia, a sentire queste meraviglie, lo prendeva per esaltato; ma, insistendo egli a restar fuori di casa, senza aiutare i suoi fratelli nella dura lotta per il pane, e vedendo che egli passava veramente il suo tempo dentro le onde e sotto il mare, come un altro se ne sarebbe andato a passeggiare per i campi, si preoccupò e cercava di scacciare quei pensieri strani dalla testa del figliuolo. Cola amava tanto il mare e per conseguenza voleva bene anche ai pesci: si disperava a vederne le ceste piene che portavano a casa i suoi fratelli, ed una volta che vi trovò dentro una murena ancora viva, corse a gettarla nel mare. Essendosi la madre accorta della cosa, lo rimbrottò acerbamente: "Bel mestiere che sai fare tu! Tuo padre e i tuoi fratelli faticano per prendere il pesce e tu lo ributti nel mare! Peccato mortale è questo, buttare via la roba del Signore. Se tu non ti ravvedi, possa anche tu diventare pesce." Quando i genitori rivolgono una grave parola ai figli, Iddio ascolta ed esaudisce. Così doveva succedere per Nicola. Sua madre tentò di tutto per distoglierlo dal mare, e credendolo stregato, si rivolse a santi uomini di religione. Ma i loro saggi consigli a nulla valsero. Cola seguitò a frequentare il mare e spesso restava lontano giorni e giorni, perché aveva trovato un modo assai comodo per fare lunghi viaggi senza fatica: si faceva ingoiare da certi grossi pesci ch'egli trovava nel mare profondo e, quando voleva, spaccava loro il ventre con un coltello e cosi si ritrovava fuori, pronto a seguitare le sue esplorazioni. Una volta egli tornò dal fondo recando alcune monete d'oro e cosi continuò per parecchio tempo, finché ebbe ricuperato il tesoro di un'antica nave affondata in quel luogo. La sua fama crebbe tanto, che quando venne a Messina l'imperatore Federico, questi volle conoscere immediatamente lo strano essere mezzo uomo e mezzo pesce. Egli si trovava su di una nave al largo, quando Cola fu ammesso alla sua presenza. "Voglio esperimentare" gli disse l'Imperatore, "quello che sai fare. Getto questa coppa d'oro nel mare; tu riportamela." "Una cosa da niente, maestà" fece Cola, e si gettò elegantemente nelle onde. Di lì a poco egli tornò a galla con la coppa d'oro nella destra. Il sovrano fu cosi contento che regalò a Cola il prezioso oggetto e lo invitò a restare con lui. Un giorno gli disse: "Voglio sapere com'è fatto il fondo del mare e come vi poggia sopra l'isola di Sicilia." Cola s'immerse, stette via parecchio tempo; e quando tornò, informò l'Imperatore. "Maestà,"disse, "tre sono le colonne su cui poggia la nostra isola: due sono intatte e forti, l'altra è vacillante, perché il fuoco la consuma, tra Catania e Messina." Il sovrano volle sapere com'era fatto questo fuoco e ne pretese un poco per poterlo vedere. Cola rispose che non poteva portar il fuoco nelle mani; ma il sovrano si sdegnò e minacciò oscuri castighi. "Confessalo, Cola, tu hai paura." "Io paura?" ribatté il giovane, "anche il fuoco vi porterò. Tanto, una volta o l'altra, bisogna ben morire. Se vedrete salire alla superficie delle acque una macchia di sangue, vuol dire che non tornerò più su." Si gettò a capofitto nel mare, e la gente stava, ad attendere col cuore diviso tra la speranza e la paura. Dopo una lunga inutile attesa, si vide apparire una macchia di sangue. Cola era disceso fino al fondo, dove l'acqua prende i riflessi del fuoco, e poi più avanti dove ribolle, ricacciando via tutti i pesci: che cosa successe laggiù? Non si sa: Cola non riapparve mai più. Qualcuno sostiene ch'egli non è morto e che è restato in fondo al mare, perché si era accorto che la terza colonna su cui poggia la Sicilia stava per crollare e la volle sostenere, cosi come la sostiene tuttora. Ci sono anche di quelli che dicono che Cola tornerà in terra quando fra gli uomini non vi sarà, nessuno che soffra per dolore o per castigo.

La leggenda di Colapesce è una leggenda siciliana con molte varianti, le cui prime attestazioni risalgono al XIV secolo. Nella sua versione più conosciuta, si narra di un certo Nicola (Cola di Messina), figlio di un pescatore, soprannominato Colapesce per la sua abilità nel muoversi in acqua; di ritorno dalle sue numerose immersioni in mare si soffermava a raccontare le meraviglie viste e, talvolta, a riportare tesori. La sua fama arrivò al re di Sicilia ed imperatore Federico II di Svevia che decise di metterlo alla prova: il re e la sua corte si recarono pertanto al largo a bordo di un'imbarcazione e buttarono in acqua una coppa che venne subito recuperata da Colapesce. Il re gettò allora la sua corona in un luogo più profondo e Colapesce riuscì nuovamente nell'impresa. La terza volta il re mise alla prova Cola gettando un anello in un posto ancora più profondo ed in quell'occasione Colaspesce non riemerse più. Secondo la leggenda più diffusa, scendendo ancora più in profondità Colapesce vide che la Sicilia posava su 3 colonne delle quali una piena di vistose crepe e segnata dal tempo, secondo un'altra versione essa era consumata dal fuoco dell'Etna, ma in entrambe le storie decise di restare sott'acqua, sorreggendo la colonna per evitare che l'isola sprofondasse. Ancora oggi si troverebbe quindi a reggere l'isola. Una versione catanese della leggenda vuole che il sovrano, interessato alla conoscenza del mondo e delle curiosità fenomeniche, chiedesse a Colapesce di andare a vedere cosa vi fosse al di sotto dell'Etna e farne testimonianza. Colapesce scese e raccontò di aver visto che sotto l'Isola vi fosse il fuoco e che esso alimentava il gigantesco vulcano. Federico ne chiese una prova tangibile, così il giovane disse che avrebbe fatto giungere al suo re la prova che desiderava, ma che sarebbe morto nel fargliela pervenire. Colapesce si tuffò con un pezzo di legno per non fare più ritorno, mentre il legno - che notoriamente galleggia - tornò in superficie bruciato.

Compagno pedagogo di Cola Pesce è senz'altro Giufà, ragazzotto di origine araba (Ghuh'â o Giucà) o siciliana o addirittura toscana... Non vi sono molte affinità tra i due, se non riferite a qualche stoltezza che per proprio conto facevano nelle  loro avventure.  Fatto è che Giufà e Cola Pesce sono stati  "media educativi" di generazioni di siciliani. L'uno, (terreno, stolto, saggio, sciocco, furbo, insofferente all'autorità, imprevedibile) ha come speranza immediata solo quella di farla franca o di ottenere vantaggi personali. L'altro (etereo, acquatico, eroico e quasi spirituale) ha come orizzonte l'ignoto e la dedizione: quando viene chiamato a superiori fini è pronto a immolarsi per la salvezza degli altri. Nell'educazione dei bambini di Sicilia, Giufà è stato (oltre a tanto altro) il senso concreto da cogliere nelle cose giuste o sbagliate; Colapesce, invece, è stato la sublimazione del sacrificio: tutti lo pensiamo vivo e lo vogliamo là dov'è!  Attento e mai stanco. Giufà, chiamato a sacrificarsi, obbedendo al suo istinto di conservazione, avrebbe fatto di tutto per scappare. Ciò non toglie, però, che grazie alla sua furbesca lucidità, in uno slancio verso gli altri, avrebbe trovato il modo per salvare la Sicilia e la sua pelle. Per queste sue inattese difese dei deboli e contrapposizioni ai prepotenti era simpatico ai bambini  e, quindi, non poteva non diventare amico di Cola Pesce.

L’asino di Giufà

Pensando di morire per una malattia grave, Giufà promise una lauta ricompensa ai poveri del suo villaggio se avessero pregato per la sua guarigione: - I soldi che otterrò dalla vendita del mio asino li darò a tutti voi, amici miei - disse con un filo di voce. Per un mese tutti i poveri del villaggio pregarono mattina e sera Dio e le loro preghiere salirono alte, finché Giufà non fu guarito. Appena fu in grado di uscire, andò al mercato per vendere il suo asino. - Chi vuole comprare un asino per un dinaro e un bastone per cento? Chi li vuole acquistare? – urlava Alcuni volevano comprare l'asino senza bastone, ma Giufà precisò:- No, non li vendo separatamente. - E continuò ad invitare all'acquisto, alle sue condizioni, fin quando l'asino non fu acquistato insieme al bastone per 101 dinari.. Quando ritornò al villaggio i suoi amici si presentarono per avere la ricompensa promessa per la guarigione.- Amici miei - disse Giufà - purtroppo non ho quasi nulla da darvi.. - Come? - insistettero i poveri amici - La tua promessa di donarci il ricavato della vendita dell'asino che fine ha fatto? Ora che la hai la borsa piena di soldi, ti rifiuti di dividerli. Vergogna!! - Non state a litigare!  - rispose Giufà - Vi avevo promesso il ricavato della vendita dell’asino e così farò!! Eccovi il dìnaro che ho ricevuto per la vendita dell'asino. Il resto dei soldi  che ho in borsa non è per voi: è il prezzo del bastone. Delusi e sbeffeggiati i poveri se ne ritornarono nelle loro case, imprecando e maledicendo Giufà.

L’ Asino contraddice Giufà

Un vicino di casa andò da Giufà a chiedergli in prestito il suo asino. Ma Giufà, sapendo quanto il suo vicino fosse capace di maltrattare gli animali, gli disse:- Te lo avrei prestato volentieri, ma il mio asino l'ho prestato ad un amico ed ancora non me lo ha restituito! Mentre diceva questa frase, però, dalla stalla si sentì un lungo raglio. Il vicino di casa se la ebbe a male e disse:- Giufà perché mi imbrogli! Dici che il tuo asino è lontano  e il suo raglio viene dalla stalla? Non hai nessun rispetto per me! Giufà, per porre rimedio alla sua bugia, disse con aria affranta:- Oh caro vicino, che dolore mi dai! Stai a credere al raglio di un asino e non a me! Mi fai proprio uno sgarbo! Sai che ti dico: anche se il mio asino fosse qui nella stalla,  per quello che tu hai detto, non te lo presterei.

Botta e Risposta

Un venerdì Giufà andò in chiesa e disse alle persone presenti:- Nel nome di Dio! Sapete di che cosa vi parlerò adesso?- Non lo sappiamo.. – risposero Allora Giufà disse:- Visto che non sapete nulla, non sto a perdere tempo con degli ignoranti -  e se ne andò. Il venerdì seguente tornò in chiesa e richiese:- Nel nome di Dio! Sapete di che cosa vi parlerò adesso?- Si, lo sappiamo.- risposero- Se già lo sapete, è inutile che mi affatichi a dirvelo un’altra volta - disse Giufà, andandosene Il terzo venerdì, la gente prese accordo che, alla solita domanda, alcuni avrebbero risposto:"Si, lo sappiamo" e  altri: "No, non lo sappiamo". Giufà quando entrò in chiesa, domandò:- Nel nome di Dio! Sapete di cosa vi parlerò adesso? La gente da una parte rispose: "Si!" e dall’altra: "No!".- Bene! -  disse Giufà - Allora quelli che lo sanno lo spieghino a quelli che non lo sanno.

Canta la notte

Una volta la mamma di Giufà cucinò un gallo e tutti a tavola lo mangiarono. A Giufà, che non lo aveva mai mangiato, piacque molto e volle sapere dalla madre come si chiamava. La madre disse: Giufà una sera vide un poveraccio che cantava dietro  una porta, prese un coltello e glielo ficcò nel cuore. Poi si caricò sulle spalle il poveraccio e se lo portò a casa e disse a sua madre: - Mamma ho portato un Canta-la-notte. La madre, vedendo il morto, entrò in confusione e decise di buttarlo nel pozzo. La giustizia si mise alla ricerca dell'uomo morto e Giufà raccontò che l'aveva ucciso lui e che l'aveva portato alla madre per cucinarlo. La madre , appena venne a sapere della confessione di Giufà, prese un castrato che aveva lo scannò e lo buttò sopra il morto nel pozzo. Nel frattempo i gendarmi si presentarono a casa e chiesero alla madre se era vero che Giufà avesse portato a casa un morto. La madre rispose che Giufà aveva portato a casa un castrato puzzolente e che le l'aveva buttato nel pozzo. Un gendarme si calò nel pozzo per controllare e tastando al buio trovò del pelo. Allora, chiese  ai parenti del morto che erano sopra:- Che è, peloso?- Forse nel petto - risposero i parenti - Ha quattro piedi? - chiese il gendarme - Ha due piedi e due mani - risposero sopra Il gendarme guardando e toccando sentì che il presunto morto aveva due corna e chiese: - Aveva due corna? su questa domanda tutti si convinsero che si trattasse di una buffonata.

Giufà e quello della berretta

Giufà di lavorare non aveva voglia e l'arte di Michelazzu gli piaceva molto. Mangiava e usciva di casa e andava in giro a bighellonare. Sua mamma era avvilita e gli diceva sempre:- Giufà, ma che maniera è! Non provi a far nulla. Non fai altro che mangiare, uscire e riuscire. Ora, non sopporto più questo andazzo: o vai a guadagnarti il pane o ti butto fuori in mezzo ad una strada. Stanco dei rimproveri, Giufà un giorno andò al mercato per comprare dei vestiti. Da un mercante comprò una cosa, da un altro ne prese un'altra e si vestì di tutto punto; si comprò, perfino, una bella berretta rossa. Ma, non avendo soldi,  non pagò nulla di tutto ciò. Diceva ai mercanti:- Mi faccia credito, che in questi giorni vengo a pagare. Quando si vestì e si vide ben acconciato, disse:- Ah! Ora ci siamo! e mia madre non avrà più modo di dire che sono malmesso. Ma, per non pagare i mercanti come debbo fare..... Ora, mi fingo che sono morto e vediamo come finisce...Si buttò su un letto:- Muoio! Muoio! sono morto! - e si mise a mani incrociate e piedi a pala. Sua madre, vedendolo in quel modo sul letto, cominciò a disperarsi:- Figghioli! Che fuoco grande! E come è accaduta questa disgrazia! Figlio mio!.Le persone accorse,  sentendo i lamenti straziati della povera donna, la compativano e, quando la notizia della morte di Giufà si sparse, i mercanti si preoccuparono e andarono a constatare di persona. Vedendolo sistemato da morto dicevano:- Giufà meschino! doveva darmi (per esempio) sei tarì, che gli ho venduto un paio di calzoni..ma glieli benedico e non li voglio! E tutti i mercanti andavano e gli benedicevano i debiti senza più pretenderli. Il Mercante che gli vendette la berretta rossa,  indispettito,  però si disse:- Ma io la berretta non gliela lascio! Andò a trovare Giufà e gli vide in testa la berretta nuova fiammante: Decise di aspettare in chiesa, dove la salma sarebbe stata portata dal beccamorto.  Nascosto in un angolo, aspettò che si facesse mezzanotte. Mentre il mercante aspettava, entrarono alcuni ladri che dovevano spartirsi un borsa di soldi che avevano rubato. Vedendoli Giufà si fece ancora più morto nel cataletto e il mercante si rintanò ancora più indietro senza fiatare. I ladri svuotarono una borsa su una bara e disposero le monete d'oro e d'argento (a quei tempi l'argento scorreva come l'acqua) in tanti mucchietti quanti erano i ladri. Rimasero dodici tarì e i ladri erano indecisi a chi dovessero toccare. Uno di loro disse:- Per evitare discussioni, facciamo così: qui c'è un morto, gli spariamo e chi lo prende in bocca si prende i dodici tarì.- Bella, bella - tutti approvarono. Stavano per prepararsi a sparare su Giufà, quando questi si alzò sul cataletto gridando.I ladri spaventati lasciarono tutte le cose in tredici e, santi piedi aiutatemi, scapparono di corsa. Giufà, allora si alzò, e andò di corsa verso i mucchietti di denaro. Contemporaneamente, il mercante, che fino a quel momento era stato in assoluto silenzio,  corse, anche lui, per afferrarsi i soldi. Basta: si misero d'accordo per prendere metà ciascuno. Ma restavano cinque grana e Giufà disse:- Questi me li prendo io!- No! Questi soldi toccano a me - rispose il mercante-  A me il cinque grana - disse Giufà- Lasciali stare! Il cinque grana è mio - ribadì il mercante- Qua il cinque grana! Voglio il cinque grana! - disse Giufà, afferrando una stanga e minacciando di colpire il mercante. Nel frattempo i ladri, a cui non andava giù di dover rimetterci i denari, tornarono su i propri passi per vedere cosa facessero i morti. Giunti alla chiesa si misero ad origliare dietro la porta. Sentendo il contradditorio e la gran disputa che c'era fra i due, commentarono:- Caspiterina! sono finiti a dividersi cinque grana ciascuno e non gli sono neanche bastati i denari. Chissà quanti sono i morti che si sono alzati dalla sepoltura! Così dicendo, alzarono i tacchi fino al sedere e se la svignarono di corsa per la paura. Giufà  nella confusione si prese il cinque grana, la borsa con i suoi denari e se ne andò a casa.

Giufà e quello della scommessa

C'era una volta un signorotto che volle levarsi un capriccio. Durante l'inverno  disse ad un tizio:- Se tu te la senti di passare una nottata in spiaggia, nudo come tua madre t'ha fatto, ti darò cento onze, se sarai ancora vivo alla mattina; se all'alba sarai morto vuol dire che hai perso le cuoia. Accettata la scommessa, il signorotto mise due guardie a sorvegliare il tizio: - Sorvegliate costui – disse Durante la notte passò un bastimento. Il povero tizio, che era sulla spiaggia, stese, allora, le mani come se si volesse scaldare al lume dell'imbarcazione. All'indomani, in presenza del signorotto, le guardie riferirono ciò che avevano visto:- Signore, tutta la notte l'ha trascorsa nudo senza scaldarsi, ma, a mezzanotte è passato, a cento miglia a mare, un bastimento con un lume acceso e lui ha steso le mani e si è scaldato. Rivolgendosi al tizio della scommessa, il signorotto disse:- Avete perso! Vi siete scaldato ed avete perso la scommessa!.Il tizio della scommessa si mise a piangere e andò a trovare Giufà. Giufà chiese:- Che hai che piangi? Il tizio: - Stanotte, un signorotto si è voluto prendere un capriccio.. E' passato un bastimento e solo perché io ho steso le mani così, dice che io mi sono scaldato e che ho, quindi, perso la scommessa!. Giufà gli disse:- Non aver paura: ci penso io! Ma, dimmi ci dividiamo i soldi se io vinco per te?..- Si Allora Giufà comprò uno zimmili di carbone e un castrato. Mise il carbone acceso a Scappuccini, un capo di Trapani, e una graticola con il castrato a Loggia, ma rivolta verso Scappuccini. Si mise, quindi, a girare sotto e sopra il castrato, come se lo stesse cucinando, ma senza fuoco sotto. Le persone, vedendo fare queste operazioni a quell'ingnorantone di Giufà, chiesero come mai il fuoco era a Scappuccini e il castrato a Loggia. Giufà rispose:- Non vedete!, Faccio arrosto il castrato. Nel frattempo passò di là il signorotto della scommessa e disse:- Che fai, Giufà?- Cucino questo castrato- E il fuoco dov'è- A Scappuccini- E come è possibile, animale?- E signore e vero animale - disse Giufà - come può essere mai che quel tizio si scaldava con il lume di un bastimento a cento miglia fuori? Come non si può arrostire questo castrato, non si poteva scaldare quel tizio!Giufà raccontò tutti i fatti alla gente che si era radunata attorno e il signorotto fu costretto a pagare la scommessa.

Racconti di Giufà

Giufà una volta andò a raccogliere legna; come lui andarono a raccogliere legna tanti altri ragazzi. Questi raccolsero la loro legna e se ne andarono, lasciando Giufà a fare le sue.
Quando Giufà terminò, si incamminò lemme lemme verso il paese. Strada facendo, mentre passava vicino una grotta, si sentì stanco e si fermò; gli venne di fare la pipì e fece quattro rivoletti. Vedendoli, Giufà disse:- Correte, correte, che vi conosco! Nella grotta c'erano dei ladri, che sentendo quella frase, scapparono. Vedendo quelle bestie scappare Giufà disse:
- Oh chi sono quegli animali! di me si sono spaventati! Giufà prese il suo mazzo di legna e scese nella grotta e trovò una pentola che bolliva. Prese un pezzo di carne e uno di pane e si mise a mangiare. Poi, andò a cercare i soldi dei ladri e si prese un bel sacco di monete d'oro, li mise assieme alla legna in groppa e se ne andò per Trapani. Presentandosi alla porta di Trapani, il guardiano gli chiese - Giufà, che porti?- Legna - rispose e se ne andò a casa di sua mamma. Mentre stava salendo per il cortile e sua mamma parlava con i vicini, Giufà disse: - Mamma, entrate- Oh! - disse - sei tutto stanco, Giufà - Venite quà, state zitta Giufà disfa il mazzo di legna e consegna il sacco di monete d'oro alla madre. Sua mamma, per niente scema, lo nascose e disse:- Non parlare, sai! perché se la Giustizia viene a saperlo ci mette in galera entrambi. Mentre Giufà dormiva, la madre prese uva passita e fichi secchi, salì sul tetto e cominciò a buttarli sopra Giufà. Quando Giufà si svegliò e vide l'uva passa disse: - Mamma, mamma!- Che vuoi?- Qui ci sono fichi secchi e uva passita - Prendili, figlio mio! E' il Signore che ce li manda! Un giorno madre e figlio si misero a litigare. - Donna cattiva, dammi i soldi che ti avevo portato, altrimenti mi arrabbio e mi rivolgo ad un giudice! La madre non ne volle sapere di ridare i denari, così Giufà si rivolse al giudice - Signor giudice ho portato a mia madre un sacco di denari e lei non vuole ridarmelo indietro! Il giudice convocò, allora, la madre. Questa dovendo andare in tribunale disse a Giufà - Giufà sono stata chiamata dal giudice. Appena usciamo, tirati la porta! Giufà, bestia com'è, scardinò la porta, se la mise in groppa e si recò dal Giudice insieme alla madre. Quando giunsero, il giudice disse - Voi dovete dare i soldi a vostro figlio! - Eccellenza, non vede che mio figlio è un pazzo? Chi ha la porta in groppa? Giufà disse allora:- Signor giudice, per questa porta è piovuto uva passa e fichi secchi. Il giudice, di fronte a tanta dabbenaggine, disse: - Perché venite da me? Non vedete che è matto!

Elia

C'era una volta un tizio di nome Elia che aveva portato il grano al mulino. Quando pensò di averne bisogno montò in groppa al mulo e andò a riprenderselo. Per la strada di ritorno, ad un certo punto si fermò per fare un riposino. Scaricò il mulo, che si mise a brucare, e si stese per terra a dormire. Dopo un po' passa un tale con un asino carico di granturco, vede che Elia dorme alla grande, gli ruba il grano e il mulo e gli lascia l'asino col granturco. Per farla completa gli prende il cappello di paglia e gli mette in testa la sua cuffia di panno, gli toglie le scarpe e gli infila il suo paio di zoccolacci. E se ne va! Quando Elia si sveglia va a riprendersi il mulo e si ritrova un asino, va a recuperare i sacchi di grano, e trova sacchi di granoturco. Fa per mettersi una mano sotto il cappello, per grattarsi la testa, e invece del cappello si accorge di avere in testa una cuffìa di panno. Abbassando la testa, invece di vedersi le scarpe, vede un paio di brutti zoccolacci. Un po' interdetto si dice - Bah!, si vede che io non sono Elia. Elia aveva un mulo, del grano, un cappello di paglia e delle belle scarpe. Se non ho nulla di tutto ciò vuol dire che non sono Elia. Tornando a casa dice alla moglie: - Donna! Donna! Dov'è tuo marito? Dov'è Elia?- È andato al mulino - risponde la moglie.- E che bestia aveva con sé?- Un mulo- E che cosa andava a prendere al mulino?- Oh bella! Il grano - risponde la donna che l'ha riconosciuto, ma solo dalla voce, perché fuori è notte fonda. E aggiunge:- Che fai là fuori? Vieni su in casa!- No, no, grazie - risponde Elia - lo non sono Elia. Elia non aveva mica gli zoccoli e non aveva neanche l'asino! Per farla in breve la moglie dovette scendere giù a prenderlo e a convincerlo che lui era sempre Elia. Ma dovette fare un sacco di fatica.

Giufà dichiara il vero

Un amico andò a far visita a Giufà e gli disse che aveva bisogno di lui. -  Che cosa ti serve? Hai bisogno di soldi? - chiese Giufà. - No, no, ho bisogno di te per testimoniare. - Su che cosa?- Voglio che tu venga con me dal giudice a testimoniare che, ho dato a un tale cento chili di grano, perciò lui è in debito verso di me. - Ma io non ti ho visto dare nulla a nessuno! - disse Giufà.- Questo lo so, ma so anche che tu sei il mio miglior amico e mi vuoi tanto bene - rispose l'amico. E Giufà - Ma di quale bene stai parlando? Tu mi stai chiedendo l'impossibile. L'amico si rattristò e disse:- Sarebbe stato meglio non venire da te; pensavo che tu fossi il mio amico più caro. E Giufà: - Non te la prendere, amico mio, puoi sempre trovare qualcun altro che testimoni per te; se io fossi stato presente, sarei venuto volentieri a testimoniare. L'amico con furbizia allora propose: - Che cosa mi dici, se ti do trenta monete per la tua testimonianza? Giufà ci pensò su un attimo e disse:- Non si possono rifiutare trenta monete per una testimonianza così semplice! Puoi considerarne tuo testimone. L'amico diede i soldi a Giufà e disse: - Domani mattina passerò da te, così andremo insieme dal giudice. Quando furono tutti davanti al giudice, l'amico di Giufà diede la sua versione dei fatti, ma l'accusato negò tutto. - Hai dei testimoni? - chiese il giudice all'accusatore. L'accusatore rispose con sicurezza: - Sì, il mio testimone è Giufà, è un uomo onesto e di fiducia. Il giudice si guardò intorno e disse: - Dov'è Giufà? Giufà fece due passi avanti e il giudice gli chiese:- Giufà, tu puoi dichiarare l'autenticità della versione dell'accusatore nei confronti dell'accusato? Giufà rispose:- Signor giudice, posso dichiarare che quest'uomo (l'accusatore) ha dato cento chili d'orzo a quell'uomo (l'accusato).E il giudice:- Lui (l'accusatore) parla di grano e tu parli d'orzo! L'accusatore suggerì a Giufà:- Guarda che era grano, e non orzo.- No, fratello mio, guarda che era orzo -  rispose Giufà rivolto al suo amico. Disse allora il giudice: - Tutto questo, che cosa vuol dire? E Giufà:- Siccome la versione di quest'uomo (l'accusatore) è fatta di una catena di bugie, allora la testimonianza è falsa, perciò le bugie e la falsa testimonianza si trovano sullo stesso piano, allora dovrebbero essere sullo stesso piano anche il grano e l'orzo. Così l'accusatore, amico di Giufà, finì in prigione.

Giufà e i miaiali

Un giorno quando Giufà tornò dalla madre, la povera donna gridò:- Giufà non ti voglio più vedere! Domani ti cercherò un altro lavoro! La mattina seguente la madre andò da un proprietario terriero e fece assumere Giufà come guardiano di maiali. L'uomo mandò Giufà in un bosco molto lontano e gli ordinò di accudire i maiali e di riportarli indietro soltanto quando questi sarebbero stati ben pasciuti. Giufà rimase per quattro mesi nel bosco, e quando i maiali furono assai grassi e pronti per esser trasformati in leccornie, tornò a casa. Sulla strada del ritorno incontrò un macellaio al quale chiese:- Volete comprare questi bei maiali? Ve li darò a metà prezzo se mi consegnerete le orecchie e le code!. Il macellaio acquistò l'intera mandria. Sborsò un sacco di denaro e, come d'accordo, diede a Giufà anche le orecchie e le code. Giufà andò allora nei pressi di una palude, prese due orecchie e le fissò nel fango, poi a due palmi di distanza mise una coda. Continuò così finché non ebbe esaurito orecchie e code. Poi corse dal proprietario terriero gridando disperato: - Ah padrone, che disgrazia mi è capitata. Avevo allevato con tanta cura i vostri maiali, erano cosi grassi e belli! Eravamo già sulla via del ritorno quando sono caduti dentro a una palude: dalla fanghiglia ora sporgono soltanto le orecchie e le code! Il padrone e la sua gente si recarono in gran fretta alla palude per tentar di salvare i maiali. Nel cercar di tirarli fuori li afferravano per un orecchio o una coda, ma dopo ogni tentativo gli restava in mano soltanto un moncherino.- Vedete padrone - gridò Giufà - come erano belli i vostri maiali. Avevano tanto grasso, e tutto è andato perduto nella palude! Così il proprietario tornò a casa senza maiali, mentre Giufà portò il denaro a sua madre e per un po' di tempo rimase con lei.

Giufà fa il medico

Un giorno Giufà andò a trovare un amico che stava molto male. Preoccupato dalla cattiva salute dell'amico, decise di chiamare il medico. Il medico durante la visita chiese al malato di mostrare la lingua. Poi, disse:- Hai mangiato troppe focacce con tanto burro, non devi farlo più. Giufà, colpito dalla veloce diagnosi del medico, gli chiese: - Come ha fatto a capire tutto in un breve tempo? Il medico rispose: - Se sai che gli faceva male la pancia e vedi briciole di focaccia sotto il letto, stai poco a capire tutto. Tornando a casa Giufà, ebbe modo di riflettere sulla semplicità con cui il medico era arrivato alla diagnosi e, alla fine si convinse che fare il medico era una cosa davvero facile. Così un giorno Giufà andò a trovare un altro amico, lo trovò triste perché suo padre era malato e voleva andare a chiamare il medico. - Non c'è bisogno dei medico, ci penso io - disse Giufà con determinazione. Vinte le resistenze dell'amico, Giufà entrò nella stanza del padre dell'amico e si mise ad osservare il malato. Poi, guardò sotto il letto e, vedendovi un paio di scarpe, disse: - Non ti preoccupare, tuo padre guarirà in pochi giorni, ma deve smettere di mangiare le scarpe.

Giufà e il falchetto

Una volta Giufà pensò d'attaccare i pulcini della madre uno per uno con uno spago e legarli poi tutti al piede di una chioccia.  "Così - diceva - potrò portarli fuori e li guarderà la loro madre". Invece venne il falchetto, acciuffò la chioccia, e la portò via con tutti i pulcini. Giufà si disperò. Il falco per aria scuoteva la testa e lui credeva che glieli avrebbe riportati. Ma inutilmente. Come era naturale, il falchetto mangiò prima la chioccia, e dopo tutti i pulcini.

Giufà e i tre ceci

Una giorno la mamma di Giufà, uscendo per andare a messa, disse: - Giufà io sto uscendo. Fra un po' metti  due ceci  in pentola, in modo che quando torno siano pronti per mangiare. Uscita la mamma, dopo un po', Giufà fece quello che la madre gli aveva detto. Quando la madre tornò a casa vide che la pentola dell'acqua era sul fuoco che bolliva. Ma, alzando il coperchio, restò di stucco non vedendo nessun legume dentro l'acqua. - Giufà, figlio sventurato, - disse - ma non ti avevo detto di mettere i ceci in pentola? - Così ho fatto mamma - Ma come? Non vedi che non c'è niente?- Non ho colpa mamma. Anzi io ho fatto meglio di come mi avevi detto. Invece di due ceci in pentola ne ho messi tre. Poi per controllare la cottura, ne ho assaggiato uno, per vedere se era giusto di sale ne ho assaggiato un altro e per vedere se fosse ancora duro ho assaggiato l'ultimo. Per questo motivo non ne sono rimasti. La mamma di Giufà, senza dire altro, prese un cucchiaio di legno e gliene suonò di santa ragione sulle gambe.

Giufà e la chiave della cassaforte

- E' stata rubata la cassaforte del comune - disse un giorno il sindaco. La cassaforte del comune è stata sicuramente rubata da un collaboratore del sindaco, perché è stata aperta con la chiave custodita solo dal sindaco in persona. In quel momento la cosa più importante per il sindaco, non era tanto quella di trovare il ladro, ma di trovare un uomo di fiducia che potesse custodire la chiave della cassaforte. Fece una riunione con i suoi collaboratori per cercare l'uomo adatto. Giufà fu indicato da tutti come l'uomo più fidato per questo genere di mansione perché era stimato da tutti, onesto e sincero. Il sindaco chiamò allora Giufà e gli manifestò le sue intenzioni. Giufà accettò l'incarico perché la cassa del comune è di tutti ed egli si sentiva responsabile verso la collettività. Giufà prese la chiave e ovunque andasse la portava con sé. Non la lasciava mai, né quando era in casa, né quando era per strada. Un giorno si fece buio in casa e Giufà non trovava più la chiave; allora uscì in strada dove c'era un po' di luce e cominciò a cercare la chiave. Alcuni si misero a cercarla con lui e chiesero: - Giufà, ma più o meno, in quale zona pensi d'averla persa? - In casa!! -  rispose Giufà. - In casa?! Allora perché la stai cercando qui per strada? - Perché in casa manca la luce, invece qua no!! Il giorno dopo Giufà trovò la chiave in casa e disse a sua moglie - Se avessi perso la chiave e se fosse stata rubata di nuovo la cassa, sarei l'unico responsabile, perciò devo trovare la maniera per proteggere sia la chiave che la cassaforte e per fare tutto questo c'è soltanto un modo. Quel giorno il sindaco chiese a Giufà se avesse messo la chiave in un posto sicuro e Giufà rispose - Si trova in un posto sicurissimo, così sicuro che da oggi in poi nessuno potrà aprire. la cassaforte. - Che cosa intendi, Giufà?! - disse il sindaco allarmato. - Ho messo la chiave dentro la cassaforte e poi l'ho chiusa in maniera definitiva, così nessuno potrà aprirla né oggi né mai - rispose Giufà con aria di trionfo.

Giufà e la giustizia

Giufà una ne pensa, cento ne fa! . Una volta ne combinò una talmente grossa che gli uomini di giustizia andarono ad arrestarlo.  Il padre di Giufà, informato in anticipo, lo fece scomparire. All'arrivo delle guardie, Giufà non si trovò e così la faccenda si risolse in tanto chiasso e in nulla di fatto. Ma il nome di Giufà era rimasto scritto sul libro nero della giustizia, e gli Agenti continuarono a cercarlo. Quando un giorno il padre di Giufà decise di farlo tornare e tenerlo nascosto in casa, si presentarono i gendarmi che gli domandarono:- Dov'è Giufà? Il padre rispose:- Ma insomma, non lo capite che mio figlio è morto? Fatemi il favore di non pensarci più! Ma sentendo dire al padre che era morto, dal suo nascondiglio urlò:- Qui mi vogliono imbrogliare Non sono morto! Alla faccia di tutti, sono vivo e vegeto!

Giufà e la Chioccia

Si racconta che una volta c'era Giufà; sua madre andando a messa gli dice: - Giufà sto andando a Messa, guarda che c'è la chioccia che deve covare le uova. Mi raccomando prepara la zuppa e falla mangiare. Quando ha finito riportala a covare, altrimenti le uova si raffreddano. Giufà, giunta l'ora, preparò la zuppa con pane e vino, prese la gallina per farla mangiare e, per fare velocemente e non far raffreddare le uova, fece ingoiare la zuppa  ficcandola in gola con le dita. Ma così facendo, la chioccia morì affogata. Vista la gallina stesa per terra, morta ammazzata, si disse: - Ora come faccio che le uova si raffreddano? Mi metto a covarle io. Si levò pantaloni e camicia e si sedette sulla covata. Quando tornò la madre, non vedendolo, si mise a chiamare: - Giufàa! Giufàa! Giufà rispose:- Chila, chila.. non posso venire, sto facendo la chioccia e sono sopra la covata altrimenti le uova si raffreddano! Sua madre si mise a gridare: - Birbante, birbante! Hai schiacciato tutte le uova! Giufà si alzò e vide che tutte le uova erano rotte.

Giufà e la pezza di tela

Giufà una ne pensa e cento ne fa. Una volta la mamma gli disse: - Giufà, ho questa pezza di tela che bisognerebbe tingere; vai dal tintore e lasciagliela per colorala verde o nera. Giufà si mise sulle spalle la pezza ed uscì. Cammina, cammina e per strada vede un bel serpente grosso e vedendolo colorato di verde disse: - Mi manda mi madre e vuole tinta questa tela. Domani vengo a ritirarla e gli lasciò la tela Giufà tornò a casa e sua madre, appena seppe della cosa, cominciò a lamentarsi:- Ah! Svergognato come mi hai rovinato!  Corri!  e va vedere se c'è ancora!.. Giufà tornò, ma la tela non c'era più!.

Giufà e il Semolino

La mamma di Giufà aveva una bambina e le voleva bene quanto ai suoi occhi. Un giorno dovendo andare a sentirsi la Messa, si rivolse a suo figlio e disse: - Giufà, guarda che io sto andando a messa: la bambina dorme, cucina il semolino e, quando si sveglia, le dai da mangiare. Giufà si mise a cucinare un grande pentolone di semolino  e, appena cotto, ne prese una bella cucchiaiata e la infilò in bocca alla bambina. La bambina si mise ad urlare per il bruciore e dopo qualche giorno morì perché la bocca le fece cancrena. La madre, non potendone più di questo figlio, prese un legno e lo mandò via a legnate.

Giufà e le stelle

Giufà era molto astuto. Chiamato dal Sultano, un giorno, si sentì dire: - Ti darò 100 denari se passerai tutta la notte sul minareto indossando sola la tua giallabiya. All'indomani Giufà si presentò dal Sultano chiedendo che venisse mantenuta la promessa: - Ho fatto come mi avevi chiesto ed ho passato la notte sul minareto alle condizioni che volevi. Il sovrano disse: - Va bene! Ma, prima dimmi come è andata. Giufà raccontò: - Era una notte fredda, a causa di un forte vento tagliente, ed  era talmente limpida che stelle rischiaravano i dintorni. - Furfante! - esclamò il Sultano - Ti sei scaldato con la luce delle stelle! Non ti meriti niente! Giufà non disse nulla e se ne andò via afflitto, ma meditava una rivalsa. Qualche giorno più tardi Giufà invitò a casa sua il Sultano con tutto i cortigiani e, fatti sedere a tavola tutti quanti, non servì nulla. Dopo qualche ora di attesa, il Sultano molto arrabbiato chiese: - Giufà, non hai preparato nulla da mangiare? Giufà sornione rispose: - Chiedo scusa a tutti, ma la pentola del cuscus non è ancora calda, venite a controllare. Il Sultano si alzò e vide la pentola con il cuscuss penzoloni con una corda dal soffitto ben lontana dal fuoco, il braciere in un angolo sul pavimento e Giufà che soffiava sul braciere - Perché soffi sul braciere? - domandò il sultano. - Per fare arrivare prima il calore alla pentola - rispose Giufà - Ma sei tonto? Come può giungere il calore alla pentola se è così distante? - ribadì il Sultano Giufà, con un pizzico di ironia, rispose: - Se nella notte sono riuscito a scaldarmi grazie alle stelle del cielo, si potrà pure cucinare il cuscuss con il calore del braciere, visto  che è molto più vicino! Capita la lezione, il Sultano diede 200 denari a Giufà per premiarlo della sua arguzia.