Il regno di Sicilia fu il nome di uno stato sorto tra l'omonima isola e il Mezzogiorno d'Italia, scisso infine nelle due corone di Sicilia (con capitale Palermo) e Napoli (con capitale Napoli).

Le origini

La nascita del Regno di Sicilia è da ricondurre ad una vicenda che vide coinvolti, nel 1130, Papa Innocenzo II e il suo Antipapa Anacleto II, entrambi successori di Onorio II, nonché Ruggero II d'Altavilla, Conte di Sicilia, Duca di Calabria e Puglia fin dal 1128 per mano dello stesso Onorio II. Nella notte tra il 13 e 14 febbraio 1130 moriva Papa Onorio II (Lamberto Scannabecchi) e, immediatamente, all'interno del Collegio Cardinalizio, si riaccese la lotta per la successione tra le stesse due fazioni che già si erano scontrate, pochi anni prima (1124), in occasione dell'elezione dello Scannabecchi. I sedici porporati facenti capo alla famiglia dei Frangipane, guidati dal Cardinal Aimerico, elessero Papa il Cardinal Gregorio. Papareschi che assunse il nome di Innocenzo II. Gli altri quattordici porporati, facenti capo alla famiglia dei Pierleoni, elessero Papa il Cardinal Pietro Pierleoni che assunse il nome di Anacleto II. Poco tempo dopo il Pierleoni riuscì a far convergere su di sé il gradimento anche di alcuni cardinali che avevano eletto il Papareschi, raccogliendo in tal modo la maggioranza dei voti del Collegio e accreditandosi, di conseguenza, come legittimo Pontefice. Poiché Innocenzo II non intendeva rinunciare alla tiara, si aprì un vero e proprio scisma all'interno della Chiesa di Roma che finì per coinvolgere soprattutto elementi non ecclesiastici, ovvero alcuni grandi Stati d'Europa, come l'Inghilterra, la Francia e la Germania che, unitamente a gran parte dell'Italia, appoggiavano Innocenzo II. Papa Anacleto II, bersagliato anche per le sue origini ebraiche e completamente isolato chiese l'appoggio dei Normanni del Duca Ruggero II, al quale offrì, in cambio, la corona regia. Il Duca non si lasciò sfuggire l'occasione e concluse, nel settembre 1130, una vera e propria alleanza militare con il Papa, in seguito alla quale questi emise una Bolla che consacrava il Conte di Sicilia, nonché Duca di Calabria e di Puglia, Rex Siciliae. Dopo di che, nella notte di Natale del medesimo anno, riprendendo un cerimoniale già visto nel lontano anno 800 in occasione dell'incoronazione di Carlo Magno, fu incoronato a Palermo come Ruggero II, Re di Sicilia, Puglia e Calabria.

Il Regno di Sicilia nel periodo Normanno

Il Regno di Sicilia nasceva, quindi, nella notte di Natale del 1130 per mano di un Antipapa, Anacleto II e veniva affidato nelle mani del figlio di colui che aveva conquistato la Sicilia, (Ruggero I d'Altavilla), a sua volta figlio di Tancredi d'Altavilla. Il Regno di Sicilia nasceva all'insegna della dinastia normanna degli Altavilla e comprendeva non soltanto l'isola cosiddetta di Trinacria, ma anche le terre di Calabria e Puglia. Innocenzo II, però, ritenendosi legittimo Pontefice, promulgò la scomunica nei confronti di Anacleto II e dichiarò nulli tutti i suoi Atti. In una serie di Concilii successivi, Reims (1131), Piacenza (1132), Pisa (1135) fu riconosciuto come tale da Inghilterra, Spagna, Francia, Lombardia, Milano, Germania. Ebbe anche a incoronare Imperatore, il 4 giugno del 1133 in San Giovanni in Laterano, Lotario di Supplinburger. Ormai Anacleto II poteva contare soltanto sull'appoggio della città di Roma, dell'Italia meridionale e dei Normanni di Re Ruggero I. Poiché lo scisma tra i due Pontefici appariva insanabile, fu giocoforza il ricorso alle armi, soprattutto perché l'Imperatore Lotario era sollecitato in tal senso dai continui interventi di Bernardo di Chiaravalle, nemico accesissimo di Anacleto II. Con la discesa in Italia di Lotario, ebbe inizio una lunga guerra tra l'Impero e i Normanni che vide Re Ruggero perdere progressivamente i territori dell'Italia peninsulare. Ripartito Lotario nell'ottobre del 1137, Ruggero riconquistò Salerno, Avellino, Benevento e Capua. Anche Napoli, dopo un anno di assedio, fu costretta a capitolare nel 1137 e proprio in seguito alla ripartenza di Lotario. Nel dicembre del 1137 moriva l'Imperatore Lotario e qualche mese dopo, il 25 gennaio del 1138, moriva anche l'Antipapa Anacleto II. La famiglia dei Pierleoni elesse un nuovo Antipapa nella persona del Cardinal Gregorio con il nome di Vittore IV, ma la rinuncia di questi nel maggio del 1138, a tre mesi dall'elezione soprattutto dietro sollecitazione di Bernardo di Chiaravalle, diede il via libera alla piena legittimazione di Innocenzo II, che ebbe il riconoscimento, nel maggio 1138, anche da parte dei Cardinali fedeli alla famiglia dei Pierleoni. Aveva termine, così, lo scisma all'interno della Chiesa di Roma. Nei primi mesi del 1139 ebbe luogo il Concilio Lateranense che confermò l'illegittimità di Anacleto II e la nullità di tutti i suoi Atti. Il Concilio ebbe a ribadire, ancora, la scomunica nei confronti dell'Antipapa e di Ruggero. Dopo di che il Pontefice stesso, alla testa di un forte esercito si mosse contro Ruggero. Ma le superiori doti militari del normanno lo portarono addirittura ad essere preso in ostaggio, presso Montecassino, Papa Innocenzo, il quale, preso atto di non poter reggere il confronto con il nemico, dovette confermargli la corona regia. Il giorno 27 del mese di luglio del 1139, nei pressi di Mignano fu redatto il privilegio mediante il quale si confermava l' elevatio in regem, unitamente all'annessione del territorio di Capua. Il territorio costituente il Regno di Sicilia comprendeva, ora, non soltanto l'isola omonima, la Calabria e la Puglia, ma tutta l'Italia meridionale peninsulare fino a Gaeta. In conclusione, il Regno di Sicilia, nato nel 1130 per mano dell'Antipapa Anacleto, riceveva il definitivo riconoscimento il 27 luglio 1139 mediante l'elevatio in regem da parte di Innocenzo II, legittimo Pontefice della Chiesa di Roma. Ruggero II morì nel 1154. I suoi successori furono:
Guglielmo I (1154 – 1166)
Guglielmo II (1166 – 1189)
Tancredi (1189 – 1194)
Guglielmo III (1194 – 1194).

Il Regno di Sicilia nel periodo Svevo

La dominazione sveva in Sicilia ebbe inizio con un matrimonio di stato fra Enrico VI, figlio dell'imperatore Federico Barbarossa, e Costanza d'Altavilla, normanna, figlia di Ruggero II. Grazie alla unione nel 1185 gli svevi potevano rivendicare con le armi il Regno di Sicilia. Così nel 1194 Enrico VI depose l'ultimo monarca normanno Guglielmo III incoronandosi Re di Sicilia e completando la conquista del regno normanno. Aveva così inizio la nuova dinastia degli Svevi in Sicilia che con Federico II, figlio di Costanza I raggiunse il massimo dello splendore. Palermo e la corte divennero il centro dell'Impero, comprendente le terre della Puglia e dell’Italia meridionale. A Palermo nacque la "Scuola poetica siciliana" con la prima poesia italiana; e politicamente il sovrano chiamato "Stupor mundi" (meraviglia del mondo) anticipò – come scrive Santi Correnti – "la figura del principe rinascimentale", anche con le cosiddette Costituzioni Melfitane (1231). Il suo regno fu tuttavia caratterizzato dalle lotte contro il Papato e i Comuni italiani, nelle quali riportò vittorie o cedette a compromessi, organizzando la quarta crociata e dotando l'isola e il meridione di castelli e fortificazioni. Volle essere sepolto nella cattedrale di Palermo, quando nel 1250 si concluse improvvisamente la sua vita, conseguentemente scatenando le lotte di successione in cui Manfredi, figlio naturale di Federico II, venne sconfitto a Benevento nel 1266 da Carlo d'Angiò, fratello del re di Francia.

Il Regno di Sicilia nel periodo Angioino

Dopo la morte di Federico II, il trono passò al figlio naturale Manfredi. Quest'ultimo appoggiò la controffensiva dei ghibellini toscani (cioè il partito filoimperiale) che nella Battaglia di Montaperti (1260) inflissero una sconfitta ai guelfi (filopapali) e si alleò con Genova, Venezia e con la Casa di Barcellona, grazie al matrimonio tra una delle sue figlie, Costanza, e il re Pietro III d'Aragona. Manfredi, però, venne scomunicato (ennesimo episodio della lunga lotta che il papato aveva intrapreso contro la Casa di Svevia, vista come una gravissima minaccia per la sopravvivenza stessa dello Stato pontificio) e nel 1263 il francese papa Urbano IV offrì la corona a Carlo I d'Angiò, fratello del Re di Francia Luigi IX. L'Angioino promosse una spedizione militare per conquistare il Regno e, nel 1265 il nuovo papa, (del pari francese), Clemente IV, lo proclamò Rex Siciliae. Manfredi tentò invano di difendersi ma fu sconfitto e ucciso nella Battaglia di Benevento, dopo la quale il Mezzogiorno e la Sicilia passarono sotto la dominazione angioina. Il nipote di Manfredi, Corradino, cercò di riconquistare la corona, ma venne sconfitto nella Battaglia di Tagliacozzo. La successiva cattura e la tragica fine per decapitazione nella Piazza del Mercato a Napoli sancirono la definitiva sconfitta dell'Impero. Di fronte all'alleanza tra papato ed angioini e alla debolezza dell'impero i signori e le città ghibelline dell'Italia settentrionale chiesero aiuto a Pietro III di Aragona. Nel contempo, in Sicilia, si andava sviluppando un forte malcontento nei confronti del governo angioino dovuto soprattutto per il trasferimento della capitale del Regno da Palermo a Napoli, ma anche a causa del durissimo governo che era esercitato che stava riducendo in miseria il paese, malcontento sfociato nello scoppio di una sommossa, ben nota come Vespri siciliani, che determinò la cacciata degli Angioini dalla Sicilia. Uno dei motivi dell'origine della sommossa, fu l'episodio in cui una donna siciliana, uscita dalla messa, subì dei soprusi da parte di un nobile francese il quale fu punito dalla folla che si ribellò a tale atto dando così origine all'inizio della ribellione contro il potere francese. I siciliani chiesero aiuto a Pietro III d'Aragona che, quale marito di Costanza di Svevia, figlia di Manfredi, si considerava titolare della corona di Sicilia. Questo coinvolgimento allargò il conflitto: il papa Martino IV ed il re francese Filippo III si schierarono a fianco degli Angiò. Il conflitto si concluse nel 1302 (Pace di Caltabellotta) con l'affidamento della Sicilia (Regno di Trinacria) a Federico III d'Aragona, fratello del re Giacomo II d'Aragona (succeduto nel frattempo a Pietro III), con la condizione che alla sua morte la corona sarebbe tornata agli angioini, cosa che però non avvenne.

La Sicilia nel periodo Aragonese e la fine del Regno di Trinacria

A Pietro III d'Aragona successe il figlio Federico III di Sicilia; a questi successe, senza lasciare eredi, la figlia Maria di Aragona. Per un breve periodo la sede del regno fu Catania. La linea di successione di Pietro III si era estinta e con essa decadde anche il titolo di re di Trinacria. Quando infatti Ferdiando I Trastamara fu eletto re d'Aragona egli dichiarò la Sicilia provincia aragonese e istituì un vicariato sull'isola. Dopo Ferdinando I regnò Alfonso il magnanimo, che riunì l'isola al regno di Napoli sotto la corona di rex Utriusque Siciliae. Egli istituì a Catania l'università. Nel 1713 il trattato di Utrecht riconosce il Regno di Sicilia al Ducato di Savoia che ne manterrà la sovranità fino al 1720, quando in cambio gli verrà assegnato il Regno di Sardegna. I Dragons Jaunes (successivamente reggimento "Nizza Cavalleria") conquistano l'isola ed entrano a Catania.

Il Regno di Carlo III di Borbone

Nel 1734 la Sicilia si ritrovò unita a Napoli, allorché Carlo, infante di Spagna,mosse alla conquista del Regno di Sicilia diventandone Re col titolo di Carlo III. Egli non aveva trovato difficoltà a cacciare gli austriaci il cui esercito non aveva opposto molta resistenza. I siciliani, da parte loro, non avevano fatto nulla per ribellarsi all’Austria e per chiedere l’aiuto spagnolo per la liberazione, tuttavia la costituzione della nuova monarchia borbonica, che riuniva in un unico stato indipendente e sovrano il Mezzogiorno continentale ed insulare, fu salutata dalla popolazione con straordinario entusiasmo. Questo era dovuto al fatto che, liberato dalla condizione di provincia, il Mezzogiorno poteva affrontare un processo di trasformazione che consolidasse il nuovo dell’indipendenza. Il 2 settembre 1734, il generale spagnolo Montemar prese possesso dell’ufficio di Viceré a Palermo; ma Montemar non rappresentava il solito Viceré, come tanti ce n’erano stati in precedenza, in quanto il suo mandato era quello di gettare le premesse militari e politiche per la fondazione di una nuova monarchia. La novità era evidente per il fatto che le truppe spagnole, per tanto tempo strumento di dominio straniero, adesso concorrevano a dar vita ad uno stato indipendente e nazionale che avrebbe rappresentato il fatto nuovo del settecento italiano. I nobili palermitani anelavano da molto tempo ad avere un proprio Re che garantisse loro tutti i simboli del potere e del prestigio, per questa ragione si sentirono lusingati quando Carlo III di Borbone si fece incoronare a Palermo. Solo dopo che il Re giurò nel Duomo di Palermo sui Vangeli il rispetto e l’osservanza della Costituzione e dei Capitoli del Regno di Sicilia, oltre che dei privilegi e delle consuetudini della sua capitale, i baroni e gli ecclesiastici siciliani gli giurarono fedeltà ma senza manifestare mai nulla di più che un consenso di massima . L’incoronazione avvenne mentre le cittadelle di Messina, Siracusa e Trapani erano ancora in mani austriache. La fretta di ricevere la corona proprio a Palermo non fu dettata dal desiderio di Carlo di compiacere i siciliani, bensì dall’atteggiamento dello Stato Pontificio al quale occorreva contrapporre un pronto riparo. La Santa Sede considerava i Regni di Napoli e di Sicilia feudi della Chiesa romana, anche se con differenti condizioni di vassallaggio. Riguardo Napoli i giuristi del tempo si chiedevano se la Chinea offerta al Papa il giorno di SS. Pietro e Paolo potesse considerassi atto di vassallaggio; il dubbio esisteva, ma nessuno si sentiva di escludere il preteso diritto della Chiesa. Per la Sicilia, invece, si aveva motivo di affermare che non si trattava di feudo soggetto a servitù poiché il Re, per diritto ereditario, agiva quale rappresentante del capo della Chiesa e non era quindi tenuto a sottoporsi all’investitura papale . Non sentendosi certo di essere dalla parte della ragione, nello smentire il preteso diritto della Chiesa sul Regno di Napoli, Carlo III scelse la formula ambigua di Re delle Due Sicilie e, bruciando i tempi, ricevette a Palermo la corona di Sicilia legittimando di fronte a Roma il nuovo regime borbonico e la conquista del regno meridionale. Fu un successo per la sua diplomazia e di conseguenza uno scacco per la politica vaticana. La grande cerimonia dell’incoronazione a Palermo, imposta da circostanze di forza maggiore, fece pensare che Carlo volesse fissare la propria dimora nella capitale siciliana invece che a Napoli. Fu una cerimonia fastosa e solenne rimasta celebre negli annali della cronaca palermitana; ma la speranza di una corte reale insediata a Palermo durò solo una settimana, infatti allo scadere di questa il Re spostò la capitale a Napoli lasciando a Palermo un Viceré. La partenza di Carlo da Palermo rappresentò per i siciliani un affronto che generò quel clima di profonda delusione nel quale si rafforzò l’antico dualismo tra Napoli e Palermo che avrebbe avuto, negli anni seguenti, risvolti drammatici . Carlo III si trovò a regnare su uno stato nel quale molti dei poteri della sovranità, che altrove costituivano normali attributi del regno, risultavano concentrati parte nel clero e nel baronaggio, parte nelle comunità territoriali e parte negli stessi organi amministrativi e giudiziari che, seppure formalmente dipendenti dal Re, nella sostanza risultavano appannaggio di ceti e gruppi particolari. La nuova monarchia meridionale, che non poteva contare sul sostegno apprezzabile di forze interne, si trovò quindi nella necessità di costruire un apparato politico ed amministrativo che ne garantisse il funzionamento. Ma per attuare un simile programma si rendeva indispensabile riportare alla corona poteri che di fatto s’erano perduti nei meandri della consuetudine, oppure erano divenuti strumenti di forza nelle mani di caste privilegiate. Nel 1738, dopo la firma del trattato di Vienna e la concessione dell’investitura da parte del Papa, Carlo III affidò a Montallegre la direzione politica di un piano di riforme contenente una serie di proposte ufficialmente tendenti al buon governo e al miglioramento del Regio erario, ma che in effetti scaturivano dalle raccomandazioni della corte spagnola in base alle quali vi era da tener testa al baronaggio per non esserne sopraffatti. Il piano di riforme, una vera e propria strategia volta a rafforzare il potere regio, si era avvalso di uno studio sull’amministrazione della giustizia affidato ad un gruppo di giuristi e alti funzionari; si prevedeva di limitare il numero dei chierici e dei religiosi, di ridurre la consistenza del patrimonio ecclesiastico proibendo alla Chiesa l’acquisto di nuovi beni immobili, inoltre si prospettava la necessità di togliere ai baroni la giurisdizione ritenuta di provenienza illegale. Altri suggerimenti riguardavano la concessione di vantaggi ai commercianti e l’attuazione di misure di austerità tendenti a moderare il lusso e a ripartire più equamente il peso fiscale tra i sudditi . La nomina del principe Corsini a Viceré di Sicilia rappresentò un fatto politico e rilevante, nel senso della precisa volontà di perseguire l’obiettivo delle riforme acquisendo un minimo di consenso. Corsini, infatti, una volta insediatosi a Palermo, non si comportò mai da Viceré assolutista ma ritenne di dover agire da Viceré costituzionale. Questo metodo, insolito per quel tempo, lo rese ben visto negli ambienti politici palermitani e gli consentì di svolgere una certa mediazione tra le direttive assolutistiche del governo e le opposizioni che puntualmente nascevano nella capitale siciliana. Per evitare che contrasti ampi e diffusi nei due regni potessero bloccare il piano di riforme, fu previsto uno sviluppo separato, articolato e anche differenziato nei tempi. Si decise, che alcune riforme venissero attuate ora nel Regno di Napoli ed ora nel Regno di Sicilia e, infine, che altre ancora fossero proposte esclusivamente nell’uno o nell’altro regno. Il riformismo di Carlo di Borbone venne però sempre considerato, dal ceto nobile e dall’ambiente ecclesiastico, come una sorta di provocazione, in particolare quando questi decise di avvalersi della collaborazione di personale ebraico nell’intento di sviluppare le attività commerciali e finanziarie dei due regni. Preti e gesuiti fomentarono la popolazione con una propaganda sfrenata a base di pregiudizi e di superstizioni, tanto da costringere il governo a tornare sui propri passi. Ancora più forti furono le resistenze, specie da parte dell’aristocrazia, quando Carlo decise di istituire la figura del Supremo Magistrato del Commercio tanto a Napoli che in Sicilia. L’iniziativa provocò la sollevazione degli ambienti giudiziari partenopei e siciliani nonché del baronaggio e delle istituzioni rappresentative dei due regni. In Sicilia il Parlamento, espressione diretta del potere baronale, arrivò ad offrire al Re un donativo di duecentomila scudi affinché si riducessero le competenze del Tribunale del Commercio, annullando in pratica la riforma. Tale opposizione rappresentò la prima manifestazione di lotta politica nei confronti del nuovo regno, condotta all’insegna di comuni propositi e iniziative da parte delle magistrature siciliana e partenopea e delle due nobiltà. Montallegre, al cospetto di un’opposizione così estesa ed ostinata, dovette soccombere. Ma il programma di riforme doveva continuare, per cui sul fronte della giurisdizione baronale e di quella ecclesiastica si decise di adottare provvedimenti differenziati, allo scopo di non provocare una comune resistenza della nobiltà e del clero nei due regni . Il contrasto, comunque, apparve evidente quando, nel 1740, il Comune di Sortino chiese di passare dal dominio baronale a quello regio pagando un congruo riscatto. Tale singolare decisione con iniziativa apparentemente circoscritta e limitata a quel Comune, mise in discussione la giurisdizione baronale in Sicilia. L’Università di Sortino avanzava la sua richiesta con evidente consenso e manifesto appoggio del governo, infatti, il suo passaggio sotto il dominio regio avrebbe portato al fisco un’entrata straordinaria annua di mille onze. I baroni sapevano che se fosse passata la richiesta, molti altri comuni feudali dell’isola avrebbero seguito il suo esempio ed essi avrebbero perduto buona parte del loro effettivo potere. La difesa delle ragioni della nobiltà venne affidata al maggior avvocato del tempo Carlo Di Napoli, e questi diede alla causa un carattere preminentemente politico. La sua proposizione divenne argomento privilegiato della giurisprudenza siciliana e punto di riferimento del pensiero dominante dell’aristocrazia isolana. La tesi di Di Napoli rivendica l’esistenza di diritti feudali, la cui origine e natura sono originari e fondamentali, pertanto in Sicilia, tanto la monarchia quanto il feudo, essendo nati entrambi contemporaneamente con la conquista normanna hanno pari dignità e la momentanea riduzione al fisco regio di un bene feudale non ne muta la natura a differenza di quello demaniale che può trasformarsi in feudale. Questa visione della feudalità in Sicilia venne accolta dal Tribunale del Real Patrimonio che dichiarò infondata la pretese del Comune di Sortino e respinse la sua richiesta di passare sotto il dominio regio. Il governo si affrettò a chiudere la vertenza mentre i baroni, approfittando della clamorosa vittoria, attaccarono a viso aperto le pretese riformatrici di Carlo tra cui, in modo particolare il Supremo Magistrato al Commercio. Dopo la conclusione della causa di Sortino, il programma di riforme di Montallegre subì il definitivo arresto prima in Sicilia e poi a Napoli. Lo stesso Montallegre, qualche tempo dopo, fu costretto a lasciare la guida del governo e rientrare a Madrid. La stessa politica riformistica di Carlo III si spense ed il re venne indotto a cercare sempre di più l’accordo coi baroni. Il nuovo Viceré Labieufuille, succeduto a Corsini nel 1747, in mancanza di coerenti direttive da Napoli si guardò bene dal prendere posizione contro i baroni siciliani; così la giurisdizione baronale divenne, giorno dopo giorno, diritto incontrastabile tanto che Fogliani, divenuto Viceré nel 1755, affermava di ispirarsi alle istruzioni del ministro spagnolo conte Olivares: “Coi baroni in Sicilia si è tutto, senza i baroni si è niente” . Il regno di Carlo III che era nato nel segno del riformismo e con l’intento di limitare il più possibile il dominio dei baroni, si concluse con un governo basato su una filosofia politica del tutto opposta.

Il Regno di Ferdinando IV (la Reggenza di Bernardo Tanucci)

Nel 1759 Carlo optò per il trono di Spagna rimasto vacante dopo la morte del fratello Ferdinando che non aveva lasciato eredi. In altri tempi il Re delle Due Sicilie avrebbe cinto la corona di Spagna divenendo capo di un’unica monarchia; ma Carlo, rispettando i trattati internazionali che vietavano espressamente tale unione, provvide a spartire i suoi domini nell’ambito della famiglia. Sul trono di Napoli mise il terzogenito Ferdinando, un bambino di otto anni, riconoscendo al secondogenito Carlo Antonio il titolo di principe ereditario di Spagna. Il nuovo Re Ferdinando IV, che conservò il titolo di infante di Spagna, fu messo sotto la tutela di un consiglio di reggenza il cui compito era in parte di reggere la cosa pubblica fino alla maggiore età del giovane monarca, ed in parte di assicurare la sua educazione. La reggenza era composta da tre nobili napoletani e da due nobili siciliani secondo un preciso rapporto di equilibrio. La presidenza era affidata al Principe di San Nicandro che assieme al Marchese Bernardo Tanucci assunse specifiche funzioni pedagogiche. Tanucci, oltre a svolgere una forte azione riformatrice, aveva il delicatissimo compito di tenere i rapporti con Carlo III; in pratica Tanucci fu il tramite della volontà del Re di Spagna a cui era rimasta la suprema podestà di dettare la politica del Regno delle Due Sicilie. I componenti del consiglio di reggenza era in pratica soltanto delle controfigure, l’ispiratore era Carlo III mentre l’anima e il cervello era naturalmente il Primo Ministro Bernardo Tanucci, un maledetto toscano, che approfittò dell’interregno per tentare di condurre a termine le riforme che Carlo aveva iniziato ma che non era riuscito a portare a buon fine. Il giovane Ferdinando si mostrò refrattario a qualsiasi serio impegno, a cominciare da quello per lo studio. Nel 1768 gli venne data in sposa Maria Carolina d'Austria: elegante e ben educata lei, rozzo e incolto lui, si trattò di un matrimonio male assortito nel quale la Regina, scaltra oltre ogni limite, avrebbe avuto il sopravvento soprattutto politico. Ferdinando, che nel frattempo avera raggiunto la maggiore età di sedici anni, non conosceva i suoi due regni e le differenze che esistevano tra di essi. Egli soleva accettare le decisioni di Tanucci senza neanche discuterle, lo stesso Primo Ministro ebbe così a scrivere: “trovai il Re all’oscuro di tutto di Parlamenti siciliani, convenne farne spiegazione nel corso della quale vidi che era al Re una novità poco gradita il potere e il rito del parlamentario, e ravvisai che questo nell’animo rendeva più gradito il Regno di Napoli ove corrono senza Parlamenti le rendite regie” . Da parte sua Maria Carolina affermava che il giovane consorte era totalmente disinformato al punto che “stimando la Sicilia quanto Capri o Procida, sarebbe stato capace, tra la mancanza di lumi e la fretta di passare ad uccidere una gazzotta, di concedere quel regno in feudo ad alcuno dei suoi garzoni” . Un primo motivo di scontro tra Tanucci e la nobiltà siciliana si ebbe su una delle questioni più delicate di ordine costituzionale, cioè il giuramento di fedeltà al nuovo Re da parte del Parlamento siciliano e a sua volta il giuramento di rispetto delle costituzioni e dei privilegi del Regno da parte del Re medesimo. Dato che il sovrano non aveva raggiunto ancora la maggiore età, il giuramento venne prestato, su procura, dal viceré Fogliani e, in tal modo, Tanucci riuscì a rimandare la cerimonia spostandola al compimento della maggiore età del Re. Una volta che questi divenne maggiorenne, la nobiltà siciliana non dimenticò l’impegno e prese l’iniziativa per far sì che Ferdinando, seguendo l’esempio del padre, si recasse a Palermo. Tanucci, ancora una volta, adducendo che la cerimonia dell’incoronazione avrebbe avuto incidenza nei rapporti con la Chiesa, a causa del presunto legame feudale del Regno con la Santa Sede, decise di non fare celebrare alcuna cerimonia. La nobiltà siciliana, enormemente delusa ed offesa, non riuscì a digerire la cosa . Intorno al 1770 i baroni siciliani sferrarono un altro colpo contro il potere regio mediante la rifeudalizzazione delle cariche ecclesiastiche: sfruttando una legge del 1738, che riservava ai prelati siciliani la direzione delle chiese di regio patronato, occuparono, con un’operazione senza precedenti, tutti i principali posti di comando dell’organizzazione religiosa isolana. Tutti i vescovi nominati in quel periodo in Sicilia erano rampolli del ceto baronale e le abbazie, i cui rappresentanti avevano diritto di sedere in Parlamento quali rappresentanti del braccio ecclesiastico, furono appannaggio della nobiltà. Nacque così uno stretto legame fra nobiltà e chiesa siciliana e quest’ultima finì per rispecchiare gli interessi della prima. Il marchese Tanucci cercò in tutti i modi di allentare i legami sociali fra Chiesa e baronaggio; egli stabilì che i vescovi siciliani venissero scelti fra i parroci invece che fra i regolari, gli abati e i canonici. Approfittando dell’enorme impressione che aveva suscitato la notizia del saccheggio, da parte dei pirati saraceni, dell’isola di Ustica e della riduzione in schiavitù di tutti i suoi abitanti, Tanucci, alla morte dell’abate titolare della Chiesa di Santa Maria dell'Altofonte, ne conferì al fisco le consistenti rendite allo scopo di reperire il denaro necessario alla costruzione di quattro navi da guerra da adoperare nella sorveglianza delle coste, inizio della creazione di una Marina fino a quel momento quasi del tutto inesistente. Il Pontefice non poté dire di no alla richiesta di un suo consenso, anche perché il Primo Ministro gli aveva offerto, come contropartita, la sorveglianza delle acque territoriali pontificie. I baroni vennero presi in contropiede. Non potevano certamente opporsi all’operazione dopo che il Papa aveva offerto il proprio consenso, né avrebbero potuto inimicarsi la popolazione del Regno che era sgomenta per le notizie arrivate da Ustica , dove la popolazione era stata quasi per intero massacrata e rapita dai pirati saraceni, vedeva di buon grado il fatto che la tranquillità sul mare fosse ottenuta con l’impiego delle rendite ecclesiastiche anziché con opposizioni fiscali di vario genere . L’espulsione dei gesuiti, avvenuta nel 1767, rappresentò il punto di forza della politica di Tanucci che mirava a provvedere ai bisogni della società e dello stato con l’impiego dei beni ecclesiastici. Il provvedimento, che costituì forse la riforma più importante non solo del Settecento italiano ma di tutto il Settecento europeo, fu reso possibile dalla debolezza dimostrata dalla Chiesa cattolica che, dalla seconda metà del secolo, era piombata in un periodo di profonda crisi con una forte perdita di peso in campo internazionale. I gesuiti, che rappresentavano qualcosa in più di un semplice ordine religioso, personificando una certa concezione della Chiesa, quella consacrata dal Concilio di Trento e basata sul principio di autorità portato alle sue estreme conseguenze, avevano permesso ad essa di superare la crisi dello scisma protestante. Sul piano politico erano una sorta di avanguardia, ideologicamente monolitica, impegnata ad assicurare l’egemonia della Chiesa nel mondo. Ma proprio il loro essere in prima linea negli affari ecclesiastici li portò allo scontro con Clemente XIII, il quale soppresse la Compagnia di Gesù. Appena il Pontefice emanò la bolla di soppressione Tanucci emise il bando di espulsione . L’espulsione dei gesuiti apriva problemi inediti per i governanti napoletani e offriva possibilità notevoli per sperimentare programmi di riforma. Bisognava organizzare nuove scuole che sostituissero quelle tenute dai gesuiti, inventare un nuovo corpo insegnanti e, infine, trovare un modo per utilizzare le proprietà che l’Ordine possedeva nel Regno. In Sicilia il patrimonio terriero dei gesuiti era molto più esteso che nel continente e comprendeva le terre più coltivate e più redditizie di tutta l’isola. Con una coraggiosa politica sociale, che si rifaceva all’insegnamento di Genovesi, Tanucci ripartì in quote le proprietà gesuitiche e le mise all’asta, preoccupandosi che una parte venisse assegnata ai contadini. Oltre tremila contadini poveri ebbero assegnati porzioni di terra; alla distanza, però, i risultati furono modesti tanto perché l’amministrazione dell’isola frenò in tutti i modi i contenuti più rilevanti della riforma, tanto perché molti contadini non ricevettero l’indispensabile sostegno finanziario per condurre la lavorazione dei campi . La legislazione governativa, basata in un primo tempo sulla cessione ai contadini dei terreni incolti, privi di alberi, di case e di altre migliorie fondiarie, venne modificata in quanto se ne avvantaggiava il baronaggio accaparrandosi la parte più redditizia del patrimonio che era stato gesuitico. Vennero, così, assegnati ai contadini anche i terreni migliorati . Tale nuova legislazione, emanata nel 1773, cioè sei anni dopo l’espulsione dei gesuiti, rappresentò il primo serio tentativo di riforma e di colonizzazione del latifondo meridionale e, comunque, la più consistente operazione di riforma agraria attuata in Italia nel corso del Settecento . Il baronaggio, non più disposto a subire l’attacco delle riforme, rialzò la testa e, con l’intento di dare una dura lezione al Primo Ministro, aizzò la folla spingendola ad una violenta rivolta per dimostrare che senza i baroni in Sicilia non si poteva governare. La rivoluzione di Palermo, che si svolse nei mesi di settembre e ottobre del 1773, fu densa di inquietanti implicazioni. Essa poteva apparire come una tipica rivolta cittadina del tutto simile a tante altre, ma il fatto nuovo consisteva che al fianco della plebe si accompagnava, anche se nascosta, la classe dominante locale che incoraggiava gli insorti a prendere il governo della città. Quindi quella del 1773 fu una rivolta politica il cui obiettivo era quello di stroncare la politica riformistica di Tanucci senza però intendimento di sottrarsi al potere borbonico. L’apparato statale e amministrativo subì un’immediata paralisi e l’esercito, messo nell’impossibilità di agire, non poté proteggere il Viceré Fogliani che si vide costretto a fuggire da Palermo. Alla fuga del Viceré seguì l’insediamento di un governo provvisorio sottoposto alla guida dell’Arcivescovo di Palermo Serafino Filangeri. Tanucci, traendo spunto dalla rivolta, per abbassare il più possibile la potenza della nobiltà siciliana a corte, diffuse la sensazione che le basi del regno meridionale non fossero per niente sicure a causa dell’infedeltà dei baroni; da ciò prese corpo e consistenza un orientamento antisiciliano e antibaronale che avrebbe, in seguito, influito sullo stesso ruolo del partito siciliano nell’ambito dei vertici dello Stato. Infatti, ristabilito l’ordine e riaffermato il potere borbonico, cominciò ad emergere il preciso intento di estromettere il baronaggio siciliano dal ruolo primario di governo del paese e di instaurare un regime nel quale Napoli avesse piena supremazia su Palermo . Nel 1774 viene nominato Viceré il Principe di Stigliano, spagnolo di nascita ma napoletano d’adozione; questo contrastava con la tradizione secondo la quale il Viceré di Sicilia doveva essere scelto tra personaggi non napoletani. Il nuovo Viceré doveva portare avanti, come fece, la politica antisiciliana e antibaronale. I baroni, per risposta, fecero in modo che il Marchese della Sambuca, siciliano ed ambasciatore di Re Ferdinando a Vienna, si facesse interprete e strumento di un’operazione volta a screditare Tanucci di fronte ali regnanti. Nel frattempo Maria Carolina era entrata nel governo dello Stato e la sua avversione verso il Primo Ministro fece in modo che strumentalizzasse tutte le avversioni che Tanucci aveva provocato in Sicilia con la sua politica di riforme. La Regina si era insediata in forza ad una clausola che la madre aveva fatto inserire nel contratto di nozze, in base alla quale la partecipazione, con voce deliberativa, al governo doveva avvenire dal momento in cui fosse nato il primo erede maschio. L’erede era nato anche se a corte si vociferava che il padre non fosse il Re. Primo atto ufficiale della Regina fu l’allontanamento di Tanucci dalla carica di Primo Ministro, accusato di essere troppo vicino alla Spagna. Il vecchio Ministro, ormai ottuagenario, si ritirò, con soddisfazione dei baroni siciliani, e morì poco dopo lasciando un patrimonio irrisorio e in tutti la sorpresa di scoprire che anche i Ministri potevano essere onesti. Maria Carolina affidò l’incarico al Marchese della Sambuca che, in quanto ambasciatore a Vienna, doveva avere respirato l’aria degli Asburgo. La figura di questi è alquanto particolare, infatti egli tentò di tenersi in bilico tra gli interessi spagnoli e quelli asburgici, finendo per contrariare tanto Carlo III che Maria Carolina, inoltre non riuscì a percepire che favorire l’influenza austriaca sul Regno avrebbe danneggiato ulteriormente il baronaggio siciliano, del quale faceva parte, essendo l’Austria interessata ad affermare un potere centralizzato e quindi antiautonomista. Maria Carolina, autoritaria, capricciosa e spregiudicata, soleva scegliere i suoi collaboratori tra i compagni d’alcova. Il sistema valse anche per l’ammiraglio Acton, un irlandese che aveva servito nella marina francese. Essa, attratta dal fascino dell’uomo, ne fece il Ministro della sua Marina, una Marina che, nei piani della Regina, avrebbe fatto diventare Napoli il caposaldo marinaro dell’impero austriaco onde contrastare il dominio mediterraneo della Spagna e della Francia. Il Marchese della Sambuca, capita finalmente la posta in gioco, tentò inutilmente di spingere Ferdinando a prendere provvedimenti per scongiurare il pericolo di un complotto. I due amanti per risposta lo incriminarono per alto tradimento con l’intento di screditare anche l’ambiente filoborbonico che, all’interno della corte, era molto forte. Il tentativo di incriminazione non riuscirà e Maria Carolina dovrà limitarsi solo a chiedere le dimissioni dell’incauto Ministro. Il problema siciliano era, comunque, ancora insoluto soprattutto negli aspetti che riguardavano il potere dello Stato e le diffuse tensioni sociali. Da parte sua il Viceré Stigliano aveva dimostrato di non possedere la forza, l’intelligenza, la capacità e la fantasia necessarie per attuare soluzioni corrispondenti al nuovo spirito pubblico, ispirato alle nuove concezioni illuministiche dello Stato. La sua fuga e la fine del suo viceregno furono, per così dire, fatali e necessarie per un improrogabile tentativo di svolta. La scelta per la nuova carica di Viceré in Sicilia cadde sul Marchese Domenico Caracciolo, ambasciatore napoletano a Parigi, uomo di carriera diplomatica di cui non si conoscevano, in quanto non sperimentate, le doti di amministratore, governante e politico.

Il Regno di Sicilia nel periodo Napoleonico

Nel 1806 le truppe di Napoleone Bonaparte invasero il regno di Napoli e Ferdinando IV di Borbone fu costretto a lasciare la città per fuggire a Palermo, sotto la protezione delle armate inglesi che occuparono il regno di Sicilia. Su pressione politica dell'Inghilterra il re concesse la Costituzione siciliana del 1812 istituendo un parlamento bicamerale ispirato al sistema poltico britannico.

Il Regno di Sicilia nel periodo Borbonico

Dopo il Congresso di Vienna Ferdinando IV di Borbone riottenne il controllo del Regno di Sicilia citeriore e lo unì al Regno di Sicilia ulteriore portando la capitale a Napoli in un nuovo stato chiamato Regno delle Due Sicilie. Contemporaneamente soppresse il parlamento siciliano e Palermo perse definitivamente le sedi centrali del governo.

Regno delle Due Sicilie fu il nome che il Re Ferdinando IV di Borbone dette al suo regno, allorché, nel 1816, dopo il Congresso di Vienna, soppresse il Regno di Sicilia citeriore e il Regno di Sicilia ulteriore e la relativa costituzione del 1812 unendoli in un'unica entità statale. Precedentemente Gioacchino Murat, dopo l'acquisizione del regno di Napoli, riprendendo il titolo di Alfonso V d'Aragona, era stato nominato da Napoleone Re delle Due Sicilie, rivendicando il controllo del governo parlamentare che Ferdinando IV di Borbone istituì a Palermo dopo che nel 1806 Napoleone invase Napoli.

Suddivisioni amministrative

Le due principali suddivisioni erano fra la parte continentale del Regno (Reali Dominii al di qua del Faro) e la Sicilia (Reali Dominii al di là del Faro), con riferimento al Faro di Messina. Reali Dominii al di qua del Faro
Comprendevano le seguenti province:
Napoli, Terra di Lavoro, Principato Citra, Principato Ultra (oggi regione Campania e regione Lazio);
Calabria Citeriore, Calabria Ulteriore (dal 1818 quest'ultima suddivisa in Calabria Ulteriore I e Calabria Ulteriore II)
(oggi regione Calabria);
Capitanata, Terra di Bari, Terra d'Otranto
(oggi regione Puglia);
Abruzzo Citeriore, Primo Abruzzo Ulteriore, Secondo Abruzzo Ulteriore
(oggi regione Abruzzo);
Contado di Molise
(oggi regione Molise);
Provincia di Basilicata
(oggi regione Basilicata).
Appartenevano al Regno delle Due Sicilie anche alcune zone che attualmente, dal punto di vista amministrativo, fanno parte della regione Lazio:
il circondario di Gaeta, parte un tempo della provincia napoletana Terra di Lavoro, e attualmente parte della provincia di Latina;
il circondario di Sora, appartenente anch'esso un tempo alla Terra di Lavoro e attualmente nella provincia di Frosinone;
il circondario di Cittaducale, ossia il Cicolano e i territori della valle del Velino, parte un tempo del Secondo Abruzzo Ulteriore, e attualmente nella provincia di Rieti.
È appartenuto inoltre al Regno di Napoli il piccolo Stato dei Presidi, il cui territorio attualmente fa parte della regione Toscana. I Presidi erano stati assegnati a Carlo di Borbone nel 1734, nell'ambito della guerra di successione austriaca, e sono rimasti ai Borbone di Napoli fino alla fine del XVIII secolo quando, con la pace di Firenze (28 marzo 1801), furono ceduti alla Francia, che a sua volta li destinò all'effimero regno d'Etruria. Col congresso di Vienna (1815) i Presidi furono assegnati definitivamente al Granducato di Toscana.
Reali Dominii al di là del Faro
Sicilia, con le seguenti province:
Val Demone
Val di Noto
Val di Mazara
È da notare che vallo (e non "valle") è termine di origine araba e indicava le ripartizioni amministrative originarie (quelle dell'ultimo periodo pre-unitario erano i dipartimenti, le province, i distretti, i circondari e i comuni).

Origine del nome

Il nome è alquanto singolare nella storia d'Italia. La prima menzione ufficiale si ha quando Alfonso V d'Aragona riunifica il Regno di Trinacria e il Regno di Sicilia con capitale Napoli sotto la corona di Rex Utriusque Siciliae. L'uso dei termini Regno di Sicilia al di là del faro e Regno di Sicilia al di qua del faro, in riferimento al faro di Messina e quindi all'omonimo stretto, ha però origine già quando, incoronato Carlo I d'Angiò da Clemente IV rex Siciliae, la corte aragonese a Palermo rivendicava per sé tale titolo. La Pace di Caltabellotta, nel 1302, ufficializzò, seppur provvisoriamente, questa separazione (secondo gli accordi, alla morte del re aragonese Federico d'Aragona, l'isola sarebbe dovuta tornare agli Angioini, cosa che in realtà non avvenne). Sotto la dominazione spagnola il territorio era diviso in due vicereami distinti, uno con capitale Napoli, l'altro con capitale Palermo, simile a quello istituito in Sardegna con capitale Cagliari. Nel 1816, all'indomani del Congresso di Vienna, Sicilia Citeriore e Sicilia Ulteriore furono per la seconda volta ufficialmente riunificate con il nome di Regno delle Due Sicilie.

Storia ed avvenimenti del Regno

Prima della Rivoluzione Francese del 1789 e delle successive campagne napoleoniche, la dinastia dei Borbone regnava negli stessi territori, ma questi risultavano divisi nel Regno di Sicilia citeriore e nel Regno di Sicilia ulteriore, ad eccezione dell'isola di Malta che prima dell'invasione napoleonica era concessa quale feudo al Sovrano Militare Ordine di Malta. Mappa del XIX secolo del Regno delle Due SicilieIl 10 maggio 1734 Carlo di Borbone, figlio di Filippo V re di Spagna e di Elisabetta Farnese, fece il suo ingresso a Napoli; il 25 maggio 1734 sconfisse definitivamente gli austriaci a Bitonto, conquistò poi la Sicilia e il 2 gennaio 1735 assunse il titolo di Re di Napoli "senza numerazione specifica"; in luglio venne incoronato a Palermo anche Re di Sicilia. Nel frattempo, con decreto dell'8 giugno 1735, provvide ad istituire un nuovo organo con funzioni consultive e giurisdizionali: la Real Camera di Santa Chiara. Il regno non ebbe una effettiva autonomia dalla Spagna fino alla pace di Vienna, nel 1737, con la quale si concluse la guerra di successione polacca. Secondo gli accordi stipulati, l’Austria cedeva a Carlo III di Borbone lo Stato dei Presidi, il Regno di Napoli nonché il Regno di Sicilia, che essa aveva scambiato con la Sardegna nel 1720 a seguito della Pace dell'Aja. Nell'agosto 1744 l'esercito di Carlo, forte ancora della presenza di truppe spagnole, sconfisse a Velletri gli austriaci che tentavano di riconquistare il regno. La situazione politica ed economico-sociale del regno nella prima metà del '700 era disastrosa, a causa del malgoverno, avutosi durante il secolare viceregno spagnolo e nei 27 anni di dominio austriaco. Tra le prime riforme intraprese dall'illuminato sovrano va ricordata la lotta ai privilegi ecclesiastici: nel 1741, con un concordato furono drasticamente ridotti il diritto d'asilo ed altre immunità; i beni ecclesiastici furono sottoposti a tassazione. Analoghi successi non si ebbero tuttavia nella lotta alla feudalità: le iniziative che minacciavano maggiormente gli interessi dei ceti privilegiati furono infatti boicottate dal ceto nobiliare. Durante il governo di Carlo, le cui riforme provvidero a riparare malanni secolari, si registrò un notevole sviluppo dell'economia, dovuto all'aumento della produzione agricola e degli scambi commerciali connessi. Il rifiorire del commercio fu reso possibile grazie anche alla conclusione di vari trattati commerciali e con la lotta al flagello della pirateria. Nel 1755 fu istituita presso l'Università di Napoli la prima cattedra di economia in Europa, denominata cattedra di commercio e di meccanica. I corsi (in italiano e non in latino), seguitissimi, furono tenuti da Antonio Genovesi, il cui pensiero influì molto sull'illuminismo dell'Italia meridionale. Molti sono i primati del regno di Napoli,ottenuti durante il buon governo di Carlo.

Ferdinando IV e la Repubblica Napoletana

Nel 1759, alla partenza di Carlo, divenuto re di Spagna, salì al trono all'età di soli 8 anni Ferdinando. Principali esponenti del Consiglio di Reggenza furono Domenico Cattaneo, principe di San Nicandro, e il marchese Bernardo Tanucci. Durante la reggenza, come nel periodo successivo, fu principalmente il Tanucci ad avere in mano le redini del Regno e a continuare le riforme iniziate in età carolina. In campo giuridico, molti progressi furono resi possibili dall'appoggio dato al ministro Tanucci da Gaetano Filangieri, il quale, con la sua opera "Scienza della legislazione" (iniziata nel 1777), può essere considerato tra i precursori del diritto moderno. Nel 1768 Ferdinando sposò Maria Carolina, figlia dell'imperatrice Maria Teresa e sorella della regina di Francia Maria Antonietta. La nuova regina partecipò attivamente, a differenza del marito, al governo del regno. Gli unici campi, infatti, in cui Ferdinando si impegnò personalmente furono le opere pubbliche, i rapporti con la Chiesa e la realizzazione della colonia di San Leucio (Caserta), interessante esperimento di legislazione sociale e di sviluppo manifatturiero. Nei primi anni di regno, Maria Carolina si mostrò sensibile alle istanze di rinnovamento e moderatamente favorevole alla promozione delle libertà individuali. Tale tendenza subì tuttavia una brusca inversione di rotta all'approssimarsi della Rivoluzione Francese, sfociando nella repressione alla notizia della decapitazione dei regnanti francesi. Le misure repressive portarono ad un'insanabile frattura tra la monarchia e la classe intellettuale; le pene colpirono non solo i democratici, ma anche i riformisti di sicura fede monarchica che così non esitarono ad abbracciare la causa repubblicana nel 1799. I Francesi erano già entrati in Italia nel 1796 con Napoleone Bonaparte, che era riuscito facilmente ad aver ragione delle armate austriache e dei deboli governi locali. Praticamente ovunque l'avanzata delle truppe francesi determinò forti tensioni tra le fazioni giacobine e quelle antigiacobine e, in alcuni casi, anche a movimenti di rivolta popolare contro le truppe d'occupazione francesi (vedi anche: insorgenze antigiacobine). Nel 1798 i francesi occuparono Roma; un tentativo di contrasto delle truppe del Regno delle Due Sicilie si risolse in un insuccesso e così i Francesi si trovarono la strada aperta verso Napoli. Il 22 dicembre 1798 il re abbandonò Napoli per Palermo, lasciando la città praticamente indifesa; gli unici ad opporsi alle truppe francesi (dal 13 al 23 gennaio 1799) furono i cosiddetti lazzari. La resistenza fu efficace, come riconobbe lo stesso generale francese Championnet, ma inutile. I difensori furono addirittura bombardati dagli stessi giacobini napoletani che erano riusciti a prendere il forte di Castel Sant'Elmo. La difesa della città costò la vita a circa 8000 napoletani e 1000 francesi. Il 22 gennaio 1799 (per alcuni il 21), mentre i lazzari ancora combattevano contro gli invasori francesi un pugno di giacobini napoletani - tra i quali Mario Pagano, Francesco Lomonaco, Domenico Cirillo, Nicola Fasulo, Carlo Lauberg, Giuseppe Logoteta, rinchiusi in Castel Sant'Elmo - proclamarono la repubblica. La Repubblica Napoletana non ebbe lunga vita, in quanto priva dell'adesione popolare (a Napoli, a differenza che in Francia, non esisteva un nutrito ceto borghese al quale le riforme rivoluzionarie potessero giovare) e delle province non occupate dall'esercito francese. Si trattava in realtà di un governo a sovranità limitata controllato dai francesi (e che non venne riconosciuto neanche dalla stessa Francia) e da questi utilizzato per dare una veste giuridica alla loro occupazione e spogliare il Regno di buona parte delle sue ricchezze allo scopo di sostenere un'economia di guerra. Il governo repubblicano tentò delle innovazioni (soprattutto sull'eversione della feudalità e sull'ordinamento giudiziario), che però non riuscirono a trovare pratica attuazione nei soli cinque mesi di vita della Repubblica. A nulla servirono gli incitamenti ad operare celermente provenienti dal "Monitore Napoletano", il giornale diretto da Eleonora Pimentel Fonseca (che solo qualche anno prima aveva scritto una "ode" dedicata al re di Napoli). A questo si aggiunse una repressione spietata e sanguinaria contro gli oppositori del regime che certo non aiutò a conquistare le simpatie popolari (durante i pochi mesi della repubblica vennero condannati a morte e fucilati dopo processi politici 1563 cittadini del Regno). Il 13 giugno 1799 l'armata sanfedista, comandata dal cardinale laico Fabrizio Ruffo, riconquistò la città di Napoli (che nel frattempo, il 7 maggio, era stata già abbandonata dai francesi, richiamati nel settentrione d'Italia), restituendola alla monarchia borbonica, (regnante, durante la Repubblica, sulla sola Sicilia). Nei mesi seguenti, una giunta nominata da Ferdinando cominciò i processi contro i repubblicani: su circa 8000 prigionieri, 105 vennero condannati a morte (di cui 6 graziati), 222 all'ergastolo, 322 a pene minori, 288 a deportazione e 67 all'esilio, da cui molti tornarono, mentre tutti gli altri furono liberati.

Il periodo Napoleonico

Il successivo quinquennio vede il Regno seguire una politica altalenante nei confronti della Francia napoleonica che, per quanto ormai egemone sul continente, rimane sostanzialmente sulla difensiva sui mari: questa situazione non consente al Regno napoletano - strategicamente posizionato nel Mediterraneo - di mantenere una stretta neutralità nel conflitto a tutto campo fra Inglesi e Francesi. Dopo la vittoria di Austerlitz del 2 dicembre 1805, Napoleone regolerà definitivamente i conti con Napoli dichiarando decaduta la dinastia borbonica e nominando suo fratello Giuseppe Bonaparte Re di Napoli. Ferdinando, rifugiatosi in Sicilia, dovrà ben presto fare i conti con l'insidiosa politica britannica, volta a trasformare l'isola in un protettorato (come nel frattempo già avvenuto con Malta). A Giuseppe Bonaparte, nel 1808 destinato a regnare sulla Spagna (per un gioco del caso, al posto del fratello di Ferdinando, Carlo IV), succederà Gioacchino Murat, regnante sino al maggio 1815 che riprese per sé il titolo di Re delle Due Sicilie rivendicando l'autorità amministrativa del Regno di Sicilia in cui si era rifugiato Ferdinando I di Borbone. Durante il regno di Giuseppe Bonaparte, il 2 agosto 1806, fu emanata la celebre legge che pose fine al sistema feudale nel Regno di Napoli. La lotta alla feudalità, ripresa in questo periodo con gran vigore, con il fondamentale contributo di giuristi come Giuseppe Zurlo e Davide Winspeare, sarebbe stata continuata da Gioacchino Murat, e alla fine riuscì a portare ad un taglio netto col passato ed alla nascita della proprietà borghese. Tuttavia le riforme non riuscirono a raggiungere il loro obiettivo principale: far nascere una piccola e media proprietà contadina. La fine della feudalità portò comunque notevoli progressi anche in campo giurisdizionale ed amministrativo.

La Restaurazione Borbonica

Il secondo ritorno di Ferdinando a Napoli non fu caratterizzato da repressioni. Il sovrano mantenne gran parte delle riforme attuate dai francesi (fu però, ad esempio, abolito il divorzio), ponendosi di fatto così a capo di una più moderna monarchia amministrativa. Unico taglio di rilievo con il periodo napoleonico si ebbe nei rapporti con la chiesa, che tornò ad occupare un ruolo di primo piano nella vita civile del Regno. Dopo il Congresso di Vienna ed il Trattato di Casalanza (20 maggio 1815), l'8 dicembre 1816, Ferdinando IV riunì anche formalmente i regni di Napoli e Sicilia con la denominazione di Regno delle Due Sicilie (già adottata da Murat), abbandonando per sé il nome di Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia ed assumendo quello di Ferdinando I delle Due Sicilie. Tale atto ebbe, tra l'altro, la conseguenza di privare di fatto la Sicilia della Costituzione promulgata dallo stesso Ferdinando nel precedente decennio napoleonico sotto la spinta dell'occupazione inglese dell'isola. In contropartita, però, la più moderna legislazione introdotta a Napoli durante il Decennio Francese fu estesa all'isola, che era stato uno dei pochi territori europei non occupati dalle armate francesi. Il primo luglio 1820, alla notizia che in Spagna era stata ripristinata la Costituzione concessa nel 1812 da Giuseppe Bonaparte, insorse a Nola un gruppo di militari capeggiato dai sottotenenti Michele Morelli e Giuseppe Silvati. La rivolta fu appoggiata anche da alti ufficiali tra i quali si distinse il generale Guglielmo Pepe. Ferdinando, constatata l'impossibilità di soffocare la rivolta, concesse la Costituzione spagnola e nominò suo vicario il figlio Francesco. Il primo ottobre iniziò i lavori il parlamento, eletto alla fine di agosto, nel quale prevalevano gli ideali borghesi diffusi nel decennio francese. Tra gli atti del parlamento vi furono la riorganizzazione delle amministrazioni provinciali e comunali ed un provvedimento sulla libertà di stampa e di culto. Le novità introdotte nelle Due Sicilie non furono gradite dai governi delle grandi potenze europee, che convocarono Ferdinando a Lubiana. Alla partenza del re si oppose, tra gli altri, il principe ereditario Francesco. In seguito al Congresso di Lubiana il Regno fu invaso dalle truppe austriache che nel marzo 1821 sconfissero l'esercito costituzionale napoletano comandato dal generale Pepe. A fiaccare lo spirito combattivo dell'esercito duosiciliano valse anche un proclama del re Ferdinando che, al seguito degli Austriaci, invitava a deporre le armi e a non combattere coloro che venivano a ristabilire l'ordine nel Regno. Il 23 marzo 1821 Napoli venne occupata, la costituzione venne sospesa e cominciarono le repressioni: si contarono alla fine 30 condanne a morte (tra cui Pepe, Morelli, Silvati e Carascosa) e 13 ergastoli.

Francesco I delle Due Sicilie

Ai primi di gennaio del 1825 morì Ferdinando I e salì al trono Francesco I. I suoi sei anni di Regno furono caratterizzati da progressi in campo economico e tecnologico. Sul piano politico perseguì una politica reazionaria, pur avendo avuto un atteggiamento favorevole nei confronti dei moti rivoluzionari durante il regno del padre.

Ferdinando II delle Due Sicilie

Stemma da intestazione di atto ufficiale del Regno delle Due Sicilie, 1855Alla morte di Francesco I, il 7 novembre 1830, il Regno passò al figlio Ferdinando II. Il governo del nuovo sovrano (fino al 1847) fu caratterizzato da notevoli riforme, volte a migliorare l'economia e l'amministrazione dello Stato. In particolare, in campo finanziario fu attuata una notevole diminuzione della fiscalità (che giovò soprattutto ai ceti meno abbienti), resa possibile, tra l'altro, dalla diminuzione delle spese di corte. Ferdinando provvide a richiamare in patria ed a reinserire negli incarichi numerosi esuli (tra i quali il generale Guglielmo Pepe, chiamato per sedare i moti scoppiati in Sicilia, ed il Carascosa) ed a diminuire le pene per i condannati politici. Inoltre si spinse verso nuovi metodi di amministrazione delle carceri, migliorandone le condizioni e applicando per la prima volta i principi della scuola positiva penale per il recupero dei malviventi. In politica estera Ferdinando cercò di mantenere il Regno fuori dalle sfere di influenza delle potenze dell'epoca. Tale indirizzo era concretamente perseguito pur favorendo l'iniziativa straniera nel Regno, ma sempre in un'ottica di acquisizione di conoscenze tecnologiche che consentissero, in tempi relativamente brevi, l'affrancamento da Francia ed Inghilterra; il che, rese il sovrano (ed il Regno) inviso agli altri Stati europei e politicamente isolato. Va bensì esplicitato che nel 1816 il Governo britannico si era fatto concedere da Ferdinando I il monopolio dello sfruttamento dello zolfo siciliano (il 90% della produzione mondiale [7]) dietro un pagamento quasi irrisorio. Ricordiamo che lo zolfo era una materia d'importanza strategica, con la quale si produceva la polvere da sparo; detenere il suo monopolio significava dominare una fonte essenziale per la guerra. Ferdinando II, deciso a ridurre la tassazione attraverso l'abolizione della tassa sul macinato, gabella invisa alle classi disagiate, decise di affidare il monopolio a una società francese che concedeva un pagamento più che doppio rispetto all'Inghilterra : questa misura innescò la cosiddetta "questione degli zolfi". Parlmerston mandò subito una flotta militare davanti al Golfo di Napoli, minacciando di bombardare la città. Ferdinando II, tenne duro, preparando flotta (all'epoca assai sviluppata) ed esercito alla guerra. La guerra fu sfiorata con l'intervento di Luigi Filippo Re dei Francesi: il Re dovette rimborsare sia gli inglesi che i francesi per il presunto danno arrecato. Il regno, però, fu nuovamente oggetto di moti rivoluzionari nel 1848, moti che, peraltro, in quell'anno interessarono numerosi Stati europei, dall'Austria alla Francia alla Prussia, con risvolti anche di carattere sociale. È infatti questo anche l'anno della pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx. Il Re, primo in Italia, concesse la Costituzione con regio decreto del 29 gennaio, ispirandosi al modello francese -giudicato il migliore- (analogo criterio seguirà due mesi dopo il Regno di Sardegna). Paradossalmente, i moti quarantotteschi in Francia travolgevano, a fine febbraio, proprio quel miglior modello di Costituzione e il re Luigi Filippo di Borbone - Orleans. L'11 febbraio venne promulgata la Costituzione, giurata il 24 febbraio, nel medesimo giorno della fuga di Luigi Filippo da Parigi. A seguito dei moti in Sicilia, il 25 marzo del 1848, si riuniva il Parlamento Generale di Sicilia, con un governo rivoluzionario presieduto da Ruggero Settimo e composto da ministri eletti dallo stesso presidente che proclamò l'indipendenza dell'isola. La vita del neonato Parlamento siciliano di Ruggero Settimo del 1848 durò brevemente e già con il cosiddetto decreto di Gaeta del 28 febbraio 1849 Ferdinando di Borbone riprendeva possesso della Sicilia, sciogliendo l'assise.
Le elezioni del Regno delle Due Sicilie si tennero regolarmente nel mese di aprile, ma il superamento di questa importante fase non pose termine a una disputa - che portò agli esiti infausti del 15 maggio - fra il Sovrano, che considerava la Costituzione appena concessa come base del nuovo ordinamento rappresentativo e la parte più radicale dei neoeletti che, al contrario, intendeva "svolgerla" - come si diceva con terminologia apparentemente neutra - ovvero, il primo atto del Parlamento avrebbe dovuto essere la modifica della Costituzione appena promulgata. I convulsi avvenimenti del 15 maggio, il giorno successivo all'apertura della Camera, (sbarramenti delle vie cittadine, in specie quelle prossime alla Reggia, con barricate da cui partirono fucilate in direzione dei reparti schierati) determinarono la reazione regia e lo scioglimento della Camera. Un mese dopo, il 15 giugno, si tennero nuove elezioni ma gli eletti furono in gran parte quelli della passata elezione. Dopo la prima seduta, la riapertura della Camera fu rinviata diverse volte di mese in mese fino al 12 marzo 1849, quando fu riaggiornata "a tempo indeterminato". Non vi fu quindi una formale revoca della Costituzione ma una sua "sospensione" a tempo indeterminato. Anche in questo caso vi fu un seguito di processi e condanne, tra cui quelle di Luigi Settembrini (già autore dalla Protesta del popolo delle Due Sicilie, nella quale a giuste critiche affiancava anche false accuse), Filippo Agresti e Silvio Spaventa. Allo ristabilimento dell' assolutismo seguì una dura repressione del movimento liberale e il soffocamento dei tentativi insurrezionali (F.Bentivegna, Carlo Pisacane). Nel campo economico, infine, bisogna sottolineare il notevole sforzo industriale sostenuto con Ferdinando II, che permise di pareggiare il confronto con gli altri stati europei. Svariati anche in questo capo furono i primati del regno, tra cui si cita la prima ferrovia d'Italia che, al momento dell'unità, aveva già collegato Napoli a Battipaglia.

Francesco II e la fine del Regno

Francesco II salì al trono nel 1859. Di carattere mite, non riuscì a rompere l'isolamento politico del regno e a impedirne la dissoluzione. Infatti il Regno sopravvisse fino al 1861, quando, dopo la conquista della massima parte del suo territorio ad opera di Giuseppe Garibaldi, con la "Spedizione dei Mille" effettuata per conto dei Savoia, le ultime fortezze borboniche (Gaeta, Messina e Civitella del Tronto) si arresero agli assedianti piemontesi. L'impresa di Garibaldi stupì i contemporanei, soprattutto per la rapidità delle prime conquiste dei Mille e per l'enorme disparità (almeno iniziale) delle forze in campo. Garibaldi fu, soprattutto in Sicilia, appoggiato dai baroni siciliani ("Meglio una capitale più lontana come Torino, che una vicina come Napoli...") e dai picciotti[senza fonte], con l'obiettivo comune di rovesciare il regime borbonico ma certamente non di secondaria importanza si rivelo' l'apporto economico britannico che permise ai garibaldini di pagare, all'inizio della campagna siciliana, il tradimento di alti ufficiali borbonici con il beneficio di vincere alcune battaglie praticamente senza colpo ferire.[senza fonte] Le armate borboniche (120.000 unità) riuscirono a organizzare un'efficace resistenza solo nella parte conclusiva della campagna, con la battaglia del Volturno, nella quale il generale Giosuè Ritucci diresse valorosamente le truppe, e con l'eroica ultima resistenza dell'assedio di Gaeta, in cui l'esercito napoletano si trovò a fronteggiare anche le armate del regno di Sardegna, giunte nel frattempo (invadendo lo Stato Pontificio, pur senza dichiarazione di guerra), ad affiancare le armate garibaldine, superandole in numero e in armamenti. Circondata, Gaeta fu sottoposta ad un blocco navale e pesantemente bombardata dal mare e da terra, sino all'inevitabile resa.
Il Regno delle Due Sicilie venne annesso al Regno di Sardegna dopo l'esito di un plebiscito (il 21 ottobre 1860) contestato, in cui non fu generalmente garantita la segretezza del voto ed al quale partecipò solo una minima parte degli elettori. Nella capitale, ad esempio, si ebbero seggi presieduti da bersaglieri, carabinieri e garibaldini o, come nel seggio della Vicaria e Pendino, anche da esponenti della camorra[senza fonte], che tollerati dal neo-prefetto Liborio Romano, "invitavano" gli elettori a votare per l'annessione. Nel resto delle province andò peggio, con intimidazioni e manifestazioni gattopardesche da parte dei nobili, schierati in gran parte con i Savoia. La reale finalità del plebiscito era quella di dare, agli occhi del mondo e della storia, una parvenza di democraticità a quella che, in realtà, era stata una conquista militare di uno stato sovrano. Inoltre si voleva escludere qualsiasi ipotesi di mantenimento di uno Stato meridionale autonomo o confederato, tanto in una paventata forma repubblicana (ipotesi caldeggiata anche da Garibaldi), che monarchico-murattiana (ipotesi che aveva indotto la Francia ad un atteggiamento attendista). Di fatto, il Regno Delle Due Sicilie cessò di esistere il 20 marzo 1861, giorno della resa della Fortezza di Civitella del Tronto, ultima roccaforte dei duosiciliani. In tale ottica, fu eluso l'ideale repubblicano di Giuseppe Mazzini, tanto tenacemente perseguito quanto eluso dai fondatori del nuovo stato italiano. Così come venne scartata a priori l'idea confederativa, voluta da molti studiosi dell'epoca. Ben presto, perciò, nacque una guerriglia di resistenza (che allora venne denominata con il termine dispregiativo di brigantaggio), combattuta sia da parte di soldati del disciolto esercito duosiciliano rimasti fedeli al vecchio regime, sia dalla gran parte degli strati popolari, che mal tolleravano i conquistatori piemontesi, i quali avevano fatto occupare i beni demaniali e i latifondi da proprietari di idee liberali. Furono altresì chiuse con decreto le antiche cave d'argento per favorire gli alleati francesi[senza fonte]. Furono poi chiuse le ricche fabbriche manifatturiere e l'industria fiorente del baco da seta per favorire quelle del settentrione[senza fonte]. Vennero boicottati i bacini e gli arsenali navali, in cui si fabbricavano prestigiosi battelli (il primo a vapore fu realizzato nel Regno) al fine di favorire i concorrenti cantieri liguri[senza fonte]. Non si dette seguito alla costruzione di nuove tratte delle ferrovie che avevano (con la Napoli-Portici) iniziato i Borboni. In Sicilia, che era da secoli il granaio d'Europa e che dai suoi porti faceva partire prodotti agricoli ed agrumi per tutta l'Europa, si boicottarono i trasporti impedendo che le mercanzie giungessero regolarmente ai porti[senza fonte], i quali in breve tempo persero la loro secolare importanza mercantile. Fu introdotta la carta moneta (dal 1866 a corso forzoso) al posto degli scudi in oro, anche perché fu prelevato il tesoro napoletanto e fu addirittura confuso il debito pubblico[senza fonte]. Furono inviati al sud Prefetti settentrionali, che non comprendevano nè la lingua nè gli usi e costumi secolari dei meridionali . Fu reintrodotta la tassa sul macinato , cioè sul pane, che era l'elemento essenziale per la sopravvivenza dei poveri. Fu introdotta una tassa sul sale e sui tabacchi, che allora la Sicilia esportava in tutto il mondo, introducendo il monopolio di stato. Ebbero così luogo sommosse popolari dei ceti affamati, che furono anche ferocemente spente dalla polizia del nuovo Regno d'Italia. Il cosiddetto "brigantaggio" insanguinò le province meridionali per tutto il primo decennio di vita dello stato unitario e i caduti furono molte migliaia in entrambi gli schieramenti. Si pensi che, almeno sino al 1865, i due terzi dei reparti del neoformato Esercito Italiano (circa 120,000 uomini) furono impiegati nella repressione della rivolta meridionale. Basti pensare che fino al 1870 fu dichiarato lo stato d'assedio per ben 8 volte per reprimere quelli che vennero tuttavia definiti "quattro straccioni di briganti" che ancora non volevano arrendersi al nuovo re. Bisogna poi sottolineare che, con l'annessione, venne introdotta la leva militare obbligatoria fino ai 40 anni (sino ad allora il servizio militare nel regno era a ferma volontaria): questo fece sì che molti giovani si dessero alla diserzione o andassero ad ingrossare le file dei "briganti". Un forte inasprimento degli scontri si registrò nell'agosto del 1863 a seguito dell'entrata in vigore della famigerata Legge Pica, che per far fronte alle rivolte nel meridione riportò la legge marziale, i processi militari e le deportazioni di molti "briganti" verso il nord del Paese e in particolar modo nella fortezza di Fenestrelle in Piemonte, da cui molti non fecero più ritorno. Gli eccessi dell'esercito regolare si verificarono in particolare nei confronti della popolazione civile, diversamente da quanto accadde nella coeva Guerra di secessione americana. Molti furono i paesi e le città che diedero un contributo in vite umane. Da ricordare sicuramente il massacro di Bronte da parte di garibaldini comandati da Nino Bixio, di Isernia dove furono mostrate le teste mozzate e racchiuse in una gabbia di 4 briganti, San Lupo, Casalduni e Pontelandolfo che furono quasi rase al suolo dai bersaglieri. Una elaborazione critica di quegli eventi è fiorita solo da una ventina di anni a questa parte: infatti una vera e propria rimozione della memoria storica ha condizionato pesantemente, insieme alle dinamiche economiche e politiche del nuovo stato italiano, il formarsi di un comune sentire nazionale, ed è stata altresì per lungo tempo fonte di incomprensioni e rancori tra le diverse anime del Paese.

Primati del Regno

Tra le realizzazioni del regno, principalmente in ambito scientifico e tecnologico, vanno certamente ricordate, tra le altre, la prima nave a vapore nel Mediterraneo (1818) e, nel 1839, la prima linea ferroviaria italiana, tra Napoli e Portici (al momento dell'unità d'Italia la tratta era giunta ad Eboli). Tali opere sono regolarmente citate in opere e scritti coevi, in quanto la novità delle stesse colpì i contemporanei. Ma, pur se meno appariscenti, non vanno tralasciati altri primati che, per loro natura, denotano il carattere non episodico dei buoni livelli raggiunti dalle industrie e manifatture meridionali. Si possono ricordare, fra gli altri, il primo ponte sospeso in ferro realizzato nell'Europa continentale (1832), la prima illuminazione a gas in Italia (1839), il primo osservatorio vulcanico del mondo, sul Vesuvio (1841). Non meno rilevante fu la fabbrica metalmeccanica di Pietrarsa (1840), espressione della politica di Ferdinando II che perseguiva l'affrancamento del Regno da forme di dipendenza, anche tecnologica, dall'estero. Alla fabbrica vera e propria si affiancava infatti una scuola per macchinisti ferroviari e navali, grazie alla quale il Regno poté sostituire, nel giro di pochi anni le maestranze inglesi utilizzate in precedenza. Il ponte Real Ferdinando sul Garigliano A puro titolo di paragone, il piroscafo sardo Cagliari impiegato da Carlo Pisacane nella sfortunata avventura di Sapri del 1857 imbarcava personale inglese per le macchine (il che fornì a Cavour un appiglio per ottenere, grazie alle imposizioni britanniche, la restituzione del battello). È d'altro canto da considerare che, perduta l'indipendenza, entrarono in crisi proprio quei settori industriali che avevano visto il Regno primeggiare in Italia. Infatti, finché il nuovo Stato non avviò una politica di industrializzazione (1878), i principi liberisti allora in voga segnarono la fine delle piccole e non più "protette" imprese meridionali rispetto alla concorrenza britannica e francese, in una competizione che si svolgeva sostanzialmente sul mercato interno. Alla crisi contribuì inoltre l'incameramento delle casse del Banco nazionale delle Due Sicilie (443 milioni di lire-oro, all'epoca corrispondenti ad oltre il 60% del patrimonio di tutti gli stati pre-unitari messi insieme) da parte di quelle esauste del Piemonte, indebolite drammaticamente anche dalla intrapresa guerra di conquista. Lo stesso istituto di credito fu poi scisso in Banco di Napoli e Banco di Sicilia.

L’inquisizione in Sicilia fu formalmente introdotta prima del 1224 dall’imperatore Federico II. L'imperatore con la costituzione "Inconsutilem tunicam" emanata a Palermo, dispose inizialmente che tutti gli eretici e gli Ebrei dovessero pagare una tassa a suffragio degli inquisitori di fede preposti al loro controllo. L'istituzione del Tribunale dell'Inquisizione. La Sicilia dal XV fino a quasi tutto il XVII secolo faceva parte dell'Impero spagnolo sottoforma di Vice-Regno, al pari di Napoli e della Sardegna. Dopo un tentativo fallito di estendere dalla Spagna alla Sicilia il Tribunale dell’Inquisizione nel 1481, Il 6 ottobre 1487 Ferdinando II il Cattolico creò il Tribunale dell'Inquisizione e fu inviato in Sicilia il primo inquisitore delegato, Frate Agostino La Pena, la cui nomina fu approvata da Papa Innocenzo VIII. In Sicilia operavano già gli inquisitori apostolici dell’Inquisizione della Santa Sede anche se con modalità meno rigorose rispetto a quelle dell'Inquisizione Spagnola. A differenza di Napoli, che rifiutò gli ordinamenti politici e militari spagnoli[6] dando vita a numerose rivolte popolari (tanto che l’Inquisizione spagnola non venne mai istituita a Napoli a dispetto del volere di Federico II) in Sicilia l’inquisizione approdò e fu gestita da inquisitori arrivati direttamente dalla Spagna. Il loro potere, di fatto, era superiore a quello dei viceré stessi in materia di procedimenti legali e, ovviamente, superiore all’autorità dei preesistenti giudici e funzionari locali. Assieme al sovvertimento della struttura istituzionale della loro terra, la minaccia di vedere in qualche modo controllate le attività mercantili, finanziarie e commerciali attraverso la censura delle loro vite attuabile dal Tribunale ecclesiastico, l'Inquisizione si rese subito invisa al popolo siciliano ancor prima che le attività persecutorie avessero materialmente luogo. L'inquisizione siciliana dipendeva direttamente da quella spagnola ed operava in assoluta autonomia dalla Santa Sede romana. Paolo III, a differenza dei suoi predecessori Innocenzo VIII, Alessandro VI e Giulio II che non si opposero alla autonomia dell’Inquisizione siciliana dalla Santa Sede, fu ostile all’Istituzione del tribunale nel Regno ed appoggiò i napoletani. A capo del tribunale siciliano era preposto un inquisitore generale spagnolo mentre gli altri componenti venivano nominati dal viceré. Ad esempio, a metà del XVII sec. era inquisitore generale di Sicilia lo spagnolo monsignor D. Diego Garsia Trasmiera. Nel tribunale i primi a operare come giudici furono i Padri Domenicani. Nel 1513 il compito fu affidato ai religiosi Regolari. Il declino del potere dell’Inquisizione in Sicilia cominciò molto lentamente a partire dal 1592 quando il viceré Duca d’Alba ottenne da Filippo II che tutti gli arruolati nella congregazione de’ famigliari del Sant’Uffizio (nobili, cavalieri, generali e altri aristocratici siciliani) perdessero i privilegi economici e prerogative fino ad allora concessi, che gravavano pesantemente sull’amministrazione dello stato. I commissari del sant’Uffizio e coloro che vi si affiliavano come famigliari erano inoltre dispensati dalle leggi restrittive sul porto d'armi e godevano di immunità dalla giustizia regia. Con decreto regio del 6 marzo 1782, dopo oltre 500 anni dall'introduzione, Ferdinando III di Sicilia, disponeva l’abolizione dell’Inquisizione nell’isola.

Scopi del Tribunale

Lo scopo del tribunale era mettere a tacere uomini di "tenace concetto" ossia recidivi peccatori della morale, eretici o comunque agitatori, sobillatori e diffusri di idee e stili di vita, credenze e superstizioni, contrari alla conservazione della fede cattolica. A differenza dei tribunali romani, non vennero svolti quasi mai processi in cui venivano dibattute teorie teologiche. Malgrado alcuni scontri col potere laico, anche in Sicilia il Tribunale ecclesiastico viene considerato da alcuni storici come una struttura ufficiale di governo.

Le condanne
Gli scritti di Gerolamo Matranga

Il padre teatino Gerolamo Matranga (1605-1679) Chierico Regolare Palermitano Qualificatore, fu per circa 40 anni censore del Sant'Uffizio e partecipò alle decisioni del Tribunale tenendo dei resoconti scritti di carattere ufficiale dove da testimonianza involontaria delle persecuzioni, torture e violenze del Sant’Uffizio a Palermo. I reati per i quali si veniva processati erano ovviamente l’eresia (eresie luterane, ebraismo) ma anche la bestemmia, la stregoneria, l’adulterio, l'usura. Su 32 inquisiti nell’anno 1658, 13 sono bestemmiatori ereticali, 9 ingannatori (maghi, indovini) e 5 bigami e un sacerdote per detenzione di libri magici. Descrive l’auto-da-fè ossia l’atto di fede in pubblico spettacolo con il quale l’eretico dichiarava il proprio pentimento. L’autodafé non risparmiava comunque la morte sul rogo.

Le prigioni di palazzo Steri a Palermo

Nelle prigioni del Palazzo Chiaramonte-Steri a Palermo, dove per quasi tre secoli gli inquisitori interrogarono, torturarono e uccisero uomini e donne, tra ebrei o semplici sospetti di comportamenti giudaizzanti, frati, suore, innovatori, libertari, nemici dell'ortodossia politica e semplici poveracci, rimangono preziosi graffiti dei carcerati, testimonianza unica delle sofferenze patite.

Il carcere di Monreale

È ormai certo, in seguito a riscontri documentari, che l'antico carcere di Monreale, non più esistente perché abbattuto nel 1860, simbolo della monarchia borbonica, si trovasse nell' antico ospedale cittadino di Santa Caterina. È noto che l' ospedale civico di Monreale nella data nel 1619 si trovasse nell'odierno monastero detto della "Badiella". Allora per diversi secoli hanno convissuto, in maniera alternata, l'antica sede ospedaliera cittadina, il monastero delle suore domenicane e il carcere comune e inquisitorio. Sembra avvalorata questa ipotesi, dell' Inquisizione, da un documento del 1828 Ulteriore conferma si ha da un interessante documento dell' Archivio diocesano di Monreale in cui, durante un processo per reato di "maleficiis" a carico di Diana La Viscusa, si dice che Diana e altre donne sono incarcerate "nella carzera pubblica dell' Hospidale di Santa Caterina di questa città di Monreale"

Alcuni Inquisitori siciliani

Da Monreale (in provincia di Palermo), antica (il suo Duomo fu costruito da re Guglielmo II nel 1174) e prestigiosa arcidiocesi, provengono nei secoli alcuni inquisitori. È da ricordare inoltre come nelle carte custodite dagli archivi cittadini (in quello diocesano si conservano molti processi "de maleficys")ci siano preziose testimonianze della durezza della vita quotidiana di quel tempo ed altre in attesa di essere scoperte da ricercatori e studiosi. I processi (almeno quelli a giuntici) datano dal 1593 (Cardinale Arcivescovo Ludovico II Torres) al 1639 Cardinale Arcivescovo Cosimo Torres. Ecco un elenco degli Inquisitori: Giovanni Torresiglia (nato a Badarano, Decano a Monreale dal 1644 al 1648), fu Inquisitore del S. Uffizio, Giudice dell’Apostolica Legazia e poi Luogotenente Generale di Sicilia. In Monreale beneficò l’Ospedale Civico e i PP. Cappuccini ed intese ad erigere l’Orfanotrofio della Badiella. Nel 1642 costruisce, dove tuttora si trova, il nuovo ospedale civico di Santa Caterina pro infirmis. Alfonso Los Cameros (nato a Roma, cardinale, vescovo a Monreale dal 1650 al 1655), da Giudice dell’Apostolica Legazia in Sicilia e Primo Inquisitore del regno di Sicilia del S. Uffizio fu promosso Vescovo di Patti. In Monreale volle restaurare il Duomo, ma ne deturpò la primitiva forma. Però è benemerito per la cattedra di S. Teologia, per il compimento della Badiella, per il grande orologio e per le acque di cui fornì la città e per il ponte di Fiumelato. Nel 1668 fu trasferito a Valenza. Geronimo Venero (nato a Villadolid,prelato a Monreale dal 1620 al 1628). Salvò Monreale nella peste del 1625 e l’arricchì di nuove acque, di pubbliche vie, di un giardino magnifico e delle scuole di filosofia e di diritto civile ed ecclesiastico. Fondò la Collegiata nella Chiesa del Salvatore e il Convento degli Agostiniani alla Rocca. Celebrò il Sinodo. Girolamo intraprende i suoi studi di retorica e dialettica prima all’Università di Alcalà poi a quella di Salamanca. Avviatosi al la vita ecclesiastica, diviene monsignore dell’abbazia di Sey, nella diocesi di Cuença e tre anni dopo canonico nella stessa diocesi. Durante i trent’anni di permanenza viene nominato Consultore primario dell’Inquisizione, riceve l’abito di S. Giacomo della Spada e le nomine di cappellano regio e vicario della provincia di Leon. Nel 1563 si laurea in diritto canonico e consegue in seguito il dottorato. Nel 1606 è ordinato sacerdote. Francesco Giudice (nato a Napoli, cardinale, vescovo a Monreale dal 1704 al 1725; fu Inquisitore Generale e Protettore del Regno di Sicilia dal 1711 al 1716, dimessosi in seguito). Da Governatore di Roma fu promosso a Cardinale e Pretore della Corona di Spagna e Primo Ministro. Fu Presidente Generale del Regno di Sicilia. Nella sua breve residenza in Monreale si mostrò generoso, sollecito e magnanimo, e favorì il nuovo Istituto dei Padri Conviventi. Fatta riserba di 20,000 scudi rinunziò l’Arcivescovato nel 1725.

La distruzione degli atti e le Relaciones de causas

Leonardo Sciascia nel suo saggio Morte dell'Inquisitore esegue un’indagine diretta delle fonti e riferisce della difficoltà di reperire informazioni sull’attività del tribunale dell’Inquisizione in Sicilia soprattutto a causa di incendi involontari e volontari come quello che distrusse l'archivio del Sant'Offizio palermitano, ordinato dal viceré Domenico Caracciolo circa un anno dopo la chiusura del tribunale. Della stessa opinione il Dollo. Lo studio e la ricostruzione dei processi (4.500 in tutto) e delle vicende hanno trovato nuovo fondamentale impulso grazie al ritrovamento ed alla digitalizzazione delle relaciones de causas, sunti dei processi che i tribunali periferici dell’Inquisizione spagnola dovevano inviare al Consejo de la Suprema y General Inquisición di Madrid.

I numeri

Secondo P. Tamburini nel solo anno 1546 (settimo inquisitore generale il cardinale Loaise) i quindici tribunali attivi condannarono 120 persone al rogo, 60 in effigie e 600 a penitenze minori. Secondo altri storici di fine '700, dal 1487, anno di istituzione del Tribunale in Sicilia, al 1732 furono inviati al braccio secolare e bruciati o condannati ad altra pena di morte 201 persone, 279 rilasciati perché morti o contumaci.

L'Apostolica Legazia di Sicilia fu un istituto religioso e politico creato da papa Urbano II allorché l'isola fu sottratta dai Normanni agli arabi, dapprima come entità giuridica autonoma, poi come regalia dei re di Sicilia.

Istituzione

La prima istituzione della Legazia di Sicilia risale al 1098, allorché fu inviato da papa Urbano II in Sicilia un legato pontificio, per rappresentare il vescovo di Roma, il patrimonium ecclesiae siciliano (latifondi) e l'unità delle chiese cattoliche fedeli alla diocesi di Roma e non subordinate al Patriarca di Costantinopoli. All'epoca dell'istituzione della Legazia però la maggior parte degli abitanti dell'isola erano ancora di religione musulmana o cristiana ortodossa, e inizialmente la politica degli Altavilla in Sicilia fu prevalentemente orientata a sostenere la tradizione greco-basiliana, finanziando con donazioni e rendite la costruzione di nuovi monasteri ortodossi. Ruggero I di Sicilia infatti per garantire l'unità del suo stato affidò alla chiesa bizantina il compito di rafforzare e sostenere nelle periferie il potere degli Altavilla: il rito bizantino infatti prevede la possibilità della subordinazione degli istituti ecclesiastici al sovrano, purché cristiano. Alcuni territori siciliani però dall'età dell'imperatore Giustiniano erano stati per lungo tempo latifondi della diocesi di Roma, e in questi possedimenti, conosciuti come Siciliae patrimonium ecclesiae, la produzione economica era ancora gestita da funzionari e clero, fedeli al patriarcato di Roma, così come la popolazione ivi insediata, che seguiva il rito latino. Per garantire la sopravvivenza di tali comunità Urbano II allora, in linea con la politica bizantina di Ruggero I di Sicilia, concesse l'amministrazione delle diocesi filo-romane al conte normanno, nominandolo in una bolla legato pontificio e conferendogli l'ereditarietà di tale titolo. Per la prima volta la chiesa di Roma concedeva ad un sovrano laico molti privilegi amministrativi, fra i quali la possibilità di gestire le cariche episcopali, il patrimonio finanziario delle diocesi e l'istituzione di metropolie. Da allora le arcidiocesi della chiesa romana, in Sicilia, non si ponevano come soggetto giuridico indipendente, come in Italia, ma, allineate con la politica bizantina, erano subordinate al potere laico degli Altavilla accentrato in Palermo.

Il Duomo di Monreale Ereditarietà e sovranità

Il titolo di legatus Siciliae era anche ereditario, e legato dapprima al titolo di comes Siciliae di Ruggero I, e quindi a quello di rex Siciliae fino a Carlo d'Angiò, e poi, dopo la pace di Anagni, a quello di rex Trinacriae. Il titolo di legatus Siciliae rimase identico nei secoli, perciò la corona siciliana rimase sempre identificata come Regia Monarchia di Sicilia, benché il titolo della sovranità sull'isola nella storia sia stata espressa secondo diverse denominazioni (re di Sicilia, re di Trinacria, vicereame spagnolo di Sicilia). Il diritto degli Altavilla di detenere per ereditarietà e a latere la gestione della legazia fu confermato poi dal successore di Urbano II, papa Pasquale II, in cui in una lettera del 1117 a Ruggero II di Sicilia affermava: antecessor meus patri tuo legati vicem gratuitate concessit. Con questi privilegi nel 1117 fu fondata per mano dei sovrani normanni una delle più grandi arcidiocesi storiche della Sicilia, Monreale (provincia Monsrecalensis), nella cui giurisdizione furono incluse le chiese dell'area meridionale ancora legate alla tradizione bizantina. Sulla linea di questi privilegi anche a Carlo I d'Angiò, allorché invase il Mezzogiorno e fu nominato rex Siciliae furono concessi da papa Clemente IV alcune regalie e privilegi in materia di giurisdizione ecclesiastica (facoltà di gestire il patrimonio delle arcidiocesi con sedi vacanti.) Con la conquista aragonese del Regno di Trinacria anche lo jus legationis (diritto di esercitare la Legazia) passò alla corona aragonese e ne seguì le sorti, fino a divenire un privilegio del re di Spagna Filippo II.

Le Controversie Liparitane

Il tema della Apostolica Legazia di Sicilia tornò di attualità alla fine del seicento per una questione originariamente marginale, ma che divenne tema centrale di scontri fra Stato e Chiesa. Alcuni esattori di imposte avevano sottoposto al tributo del plateatico un sacco di ceci che gli incaricati del vescovo di Lipari volevano vendere sulla piazza del mercato. Il vescovo, che riteneva lesi i suoi antichi privilegi, reagì imponendo la scomunica. Contro di essa fu fatto ricorso al re che eliminò la scomunica mediante il ricorso al suo diritto di decidere sugli appelli per abuso delle sentenze ecclesiastiche. Solo dopo anni e diversi cambi di dinastie la questione trovò una soluzione.

L'appello per abuso era un antico istituto giuridico che attribuiva al re di Sicilia il diritto di modificare le decisioni dei vescovi dell'isola. Nell'antico diritto, il re di Sicilia era anche legato papale. La situazione nacqe ai tempi in cui i Normanni avevano provveduto alla riconquista dell'isola, strappandola ai Saraceni, ed apparivano come il baluardo della cristianità. Nasceva la Monarchia Sicula: il re era monarca nel senso che in lui si sommavano i poteri civili e quelli religiosi di legato papale. Un piccolo episodio locale, a fine '600, fece diventare l'appello per abuso il centro delle lotte fra stato e chiesa: alcuni esattori di imposte avevano sottoposto al tributo del plateatico un sacco di ceci che gli incaricati del vescovo di Lipari volevano vendere sulla piazza del mercato. Il vescovo, che riteneva lesi i suoi antichi privilegi, reagì imponendo la scomunica. Contro di essa fu fatto ricorso al re, che eliminò la scomunica mediante il ricorso al suo diritto di decidere sugli appelli per abuso delle sentenze ecclesiastiche. Il papa a sua volta, intervenne negando validità all'intervento regio, in materia religiosa. Dall'altra parte tutta una corrente di pensiero (i Regalisti) rivendicò allo Stato il diritto esclusivo di decidere sulla questione originaria che era una gabella di diritto civile. Cambiarono le dinastie: il regno di Sicilia in pochi anni passò dalla corona spagnola (prima gli Asburgo di Spagna, poi i Borboni di Spagna), ai Savoia, agli austriaci (Asburgo d'Austria), ai Borbone-Napoli, ma il contrasto continuò e fu appianato solo dopo molti anni. Anche nel Sillabo rimase una eco delle antiche discussioni "regaliste" e una proposizione espressamente condannava l'Appello per abuso. Un riferimento letterario di questi avvenimenti si ha in un'opera di Leonardo Sciascia, che ricavò da essi materia della sua Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D.. La legge delle guarentigie all'articolo 17 abolì definitivamentela possibilità di ricorrere ad un giudice dello stato sui provvedimenti delle autorità ecclesiastiche in materie spirituali.

Dopo la morte di Corrado, la sconfitta di Manfredi a Benevento il 26 febbraio 1266 e la decapitazione di Corradino a Napoli 29 ottobre 1268, il Regno di Sicilia era stato definitivamente assoggettato a Carlo I d'Angiò. Il Papa Clemente IV, che già aveva incoronato Re di Sicilia Carlo nel 1263, sperava così di poter imprimere ulteriormente la propria influenza sul Regno dell'Italia meridionale, senza subire gli odiati veti che furono imposti dagli svevi. Tuttavia il Papa si renderà conto molto presto che in realtà gli angioini non manterranno le promesse e perseguiranno una politica espansionistica. Conquistato il Meridione d'Italia, Carlo pensava già a Costantinopoli. In Sicilia la situazione era particolarmente critica per una riduzione generalizzata delle libertà baronali ed una opprimente politica fiscale. L'isola, infatti, che fu sempre una fedele roccaforte sveva e resistette per alcuni anni dopo il tentativo di Corradino, ora era il bersaglio della rappresaglia angioina. Gli Angiò peraltro si mostrarono insensibili a qualunque richiesta di ammorbidimento ed applicarono un esoso fiscalismo praticando usurpazioni, soprusi e violenze. Dante Alighieri (che aveva 17 anni nel 1282) nel VIII canto del Paradiso, indica come Mala Segnoria il regno angioino in Sicilia. I nobili siciliani e soprattutto il diplomatico Giovanni da Procida riponevano le proprie speranze per una soluzione della situazione siciliana su Michele VIII Palaeologo, imperatore bizantino in contrasto con Carlo I d'Angiò, su Papa Niccolò III, che si era dimostrato sensibile e sul Re Pietro III d'Aragona. Il re d'Aragona era favorito in quanto la propria consorte Costanza era figlia di Manfredi ed unica discendente della dinastia sveva di cui la popolazione siciliana manteneva ancora il ricordo dello splendore raggiunto con il nonno, l'imperatore Federico II, tuttavia egli era impegnato dalla riconquista della parte della penisola iberica in mano ai mori. A fine 1280 accaddero due eventi storici importanti: morì Papa Niccolò mentre l'imperatore Michele era duramente impegnato da una coalizione dove vi erano fra gli altri gli Angiò e Venezia. I baroni siciliani iniziarono a organizzare una sollevazione popolare anche per dare un segno tangibile della loro forza e convincere Pietro, l'unico interlocutore rimasto a poter accorrere in aiuto dei siciliani. In questo contesto avveniva l'elezione di Papa Martino IV il 22 febbraio 1281 su cui in Sicilia si riponevano le ultime speranze. Invece il Papa, che era francese ed era stato eletto proprio grazie al sostegno degli Angiò a cui era particolarmente legato, si mostrò subito insensibile ai siciliani. Le pressioni internazionali in realtà, celate o meno, erano molteplici data la instabile situazione politica europea di fine XIII secolo, la forte opposizione nei confronti dell'ingerenza papale e l'inarrestabile ascesa degli angioini, vassalli del pontefice,i quali ne erano al servizio assoluto. Carlo I d'Angiò era sostenuto oltre che dal Papa Martino IV, da Filippo III di Francia e dai guelfi fiorentini. Pietro d'Aragona, che rappresentava la possibilità di frenare l'espansione angioina invece aveva i favori oltre che di Michele VIII Palaeologo, di Rodolfo d'Asburgo, di Edoardo I d'Inghilterra, della fazione ghibellina genovese, del Conte Guido da Montefeltro, di Pietro I di Castiglia, della nobiltà locale e catalana e tiepidamente delle Repubbliche marinare di Venezia e di Pisa.


La Guerra dei Novant'anni
La rivolta del lunedì di Pasqua

Chiesa dello Spirito Santo, PalermoTutto ebbe inizio all'ora del vespro[senza fonte] del 31 marzo 1282, lunedì dopo la Pasqua, sul sagrato della Chiesa dello Spirito Santo, a Palermo. A generare l'episodio fu - secondo la ricostruzione storica - la reazione al gesto di un soldato dell'esercito francese, tale Drouet, che si era rivolto in maniera irriguardosa ad una giovane donna accompagnata dal consorte, mettendole le mani addosso con il pretesto di doverla perquisire;[3]a difesa di sua moglie, lo sposo riuscì a sottrarre la spada al soldato francese e lo uccise. Tale gesto fu appunto la scintilla che dette inizio alla rivolta. Nel corso della serata e della notte che ne seguì i palermitani - al grido di "Mora, mora!" - si abbandonarono ad una vera e propria "caccia ai francesi" che dilagò in breve tempo in tutta l'isola, trasformandosi in una carneficina. I pochi francesi che sopravvissero al massacro vi riuscirono rifugiandosi nelle loro navi, attraccate lungo la costa. Si racconta che i siciliani, per individuare i francesi che si camuffavano fra i popolani, facessero ricorso ad uno shibboleth (cfr. Giudici 12,5-6), mostrando loro dei ceci e chiedendo di pronunziarne il nome; appena i francesi dicevano "siseró", anziché "ciciru", venivano uccisi.

Gli organizzatori

Secondo la tradizione, la rivoluzione del Vespro fu organizzata in gran segreto dai principali esponenti della nobiltà siciliana. Quattro furono i principali organizzatori: Giovanni da Procida, della famosa Scuola medica salernitana, medico di Federico II; Alaimo di Lentini, Signore di Lentini; Gualtiero di Caltagirone, Barone, Signore di Caltagirone; Palmiero Abate, Signore di Trapani e Conte di Butera. Secondo I Raguagli Historici del Vespro Siciliano di Filadelfo Mugnos, nell'organizzazione della rivoltà questa fu la ripartizione:
Ad Alaimo di Lentini fu assegnato il Val Demone con la città di Messina. A sua volta questi affidò: Milazzo e le terre vicine a Natale Anzalone e Bartolomeo Collura; Castroreale a Bartolomeo Graffeo; il territorio da Patti a Cefalù a Tommaso Crisafi e Cefaldo Camuglia; il territorio da Taormina a Catania a Pandolfo Falcone; San Filippo a Girolamo Papaleo; Nicosia a Pietro Saglinpepe e Lorenzo Baglione; Troina a Iacopino Arduino.
A Palmiero Abate fu assegnato il Val di Mazara e a sua volta questi affidò: Trapani ed Erice ai fratelli; Marsala e le terre vicine a Berardo Ferro; Termini a Giovanni Campo; Enna, Calascibetta e altre terre ad Arrigo Barresi; Salemi, Polizzi e Corleone a Guido Filangeri; Licata a Rosso Rossi e Berardo Passaneto; Agrigento a Giovanni Calvelli; Naro a Niccolò Lentini e Lucio Putti. A Gualtiero di Caltagirone fu assegnato il Val di Noto, il quale si riservò di organizzare la rivolta in prima persona a Caltagirone, Piazza e Aidone. Affidò invece: Mineo e alcune terre vicine al figlio Perotto; Catania a Pietro Cutelli e Cau Tedeschi; Lentini a Giovanni Balsamo e Lanfranco Lentini; Siracusa a Perrello Modica e Pietro Manuele; Modica, Ragusa e altri luoghi a Manfredi Mosca; Vizzini ad Arnaldo Callari e Luigi Passaneto; Noto a Luigi Landolina e Giorgio Cappello.

La prima fase del Vespro

Dina e Clarenza suonano la campana per avvertire i messinesi dell'attacco angionio All'alba, la città di Palermo si proclamò indipendente. Ben presto, la rivolta si estese a tutta la Sicilia. Dopo Palermo fu la volta di Corleone, Taormina, Messina, Siracusa, Augusta, Catania, Caltagirone e, via via, tutte le altre città. Successivamente, gli insorti richiesero il sostegno del Papa Martino IV, affinché appoggiasse l'indipendenza dell'isola e la patrocinasse; tuttavia, il pontefice era stato eletto al soglio papale grazie all'appoggio dei suoi connazionali francesi e pertanto non accolse le richieste degli isolani, bensì appoggiò l'azione repressiva degli angioini. Carlo I d'Angiò tentò invano di sedare la rivolta con la promessa di numerose riforme; alla fine decise di intervenire militarmente. Secondo un cronista siciliano, Carlo I inviò in Sicilia una flotta con 24.000 cavalieri e 90.000 fanti. In realtà, tali numeri erano per l'epoca effettivamente esagerati: più accreditata è la stima del Villani, che parla di un totale di 5.000 uomini, di cui 500 provenienti da Firenze. A fine maggio 1282, l'esercito sbarcò tra Catona e Gallico (a nord di Reggio) iniziando l'assedio di Messina e bloccando di fatto l'intervento di Reggio a sostegno della città siciliana. La città dello Stretto era allora comandata da Alaimo di Lentini, che nominato Capitano del Popolo, organizzò la resistenza nella città. Il primo assalto navale fu il 2 giugno, respinto dai siciliani; indi sbarcò sulle coste di Messina il 25 luglio 1282, ben sapendo che non avrebbe mai potuto avanzare all'interno della Sicilia se non dopo aver espugnato la città sullo stretto. Il 6 e l'8 agosto si ebbe un assalto guelfo italo-francese alle spalle della città, dai colli, respinto dai siciliani. Alla guerra parteciparono tutti i centri dell'isola, tranne Sperlinga (EN), che divenne l'unico caposaldo angioino e dove i soldati si asseragliarono per circa un anno. Nel castello della cittadina infatti, si può ancora leggere di questa fedeltà: "Quod Siculis placuit, sola Sperlinga negavit" ("Ciò che piacque ai Siciliani, solo Sperlinga lo negò"). L'assedio di Messina durò fino a tutto il mese di settembre, ma la città non fu espugnata. Al periodo storico sono legate due leggende: il Vascelluzzo e Dina e Clarenza.

L'intervento Aragonese e la reazione pontificia

Nel frattempo i nobili siciliani avevano offerto la corona di Sicilia a Pietro III d'Aragona, marito di Costanza, figlia del defunto Re Manfredi di Svevia. L'aver fatto cadere su Pietro III la scelta quale nuovo Re di Sicilia significava per gli isolani la volontà di ritornare, in certo qual modo, alla dinastia sveva, incarnata da Costanza. La flotta di re Pietro, comandata da Ruggero di Lauria sbarcò il 30 agosto 1282 a Trapani accolto da Palmiero Abate. L’insurrezione divenne così un vero conflitto politico fra Siciliani ed Aragonesi da un lato e gli Angioini, il Papato, il Regno di Francia e le varie fazioni guelfe dall'altra. Appena insediatosi Pietro nominò Alaimo di Lentini Gran Giustiziere, Giovanni da Procida, Gran Cancelliere e Ruggero di Lauria Grande Ammiraglio. Inoltre assegnò incarichi di primo piano ai suoi fidati Berengario Pietrallada, Corrado Lancia e Blasco I Alagona. Il 26 settembre 1282 Re Carlo, sconfitto, fece ritorno a Napoli, lasciando la Sicilia nelle mani di Pietro III. Ebbe inizio così un lungo periodo di guerre tra gli angioini e gli aragonesi per il possesso dell'isola. Nel novembre 1282 il Papa Martino IV lanciò la scomunica su Pietro ed i siciliani.
Gli Aragonesi presero l'impegno di tenere distinti i Regni di Sicilia e di Aragona: il Re nominava un luogotenente che in sua assenza avrebbe regnato in Sicilia. Così quando Pietro fu richiamato in Spagna lasciò la luogotenenza ad Alfonso III d'Aragona e dopo questo verrà investito dell'incarico Giacomo II d'Aragona. Gli aragonesi però frustrarono quasi subito le aspirazioni dei siciliani, quando Pietro, finita l'occupazione dell'isola, sbarcò a Reggio Calabria e puntò a risalire la Calabria in direzione di Napoli. I malumori dei baroni siciliani sfociarono in ostilità aperta ed a farne le spese furono alcuni dei capi dei Vespri, come Gualtiero di Caltagirone, che il il 22 maggio del 1283 venne condannato al patibolo da Giacomo, figlio di Pietro e luogotenente di Sicilia; la condanna fu eseguita nel "piano di S.Giuliano" a Caltagirone. Davanti a Malta, l'8 giugno 1283 si affrontarono per la prima volta la flotta catalano-siciliana di Ruggero di Lauria e quella angioina nella cosiddetta Battaglia navale di Malta. L'ammiraglio Ruggero inflisse un duro colpo agli angioini, che furono costretti alla fuga. Il Papa Martino IV, che sosteneva fortemente la causa angioina, scomunicò nuovamente Pietro nel gennaio, e quindi nel febbraio 1283 ed indisse una vera e propria crociata da Orvieto[senza fonte] il 2 giugno 1284 contro i siciliani. Il 5 giugno 1284 e poi nel 1287 nelle due Battaglie navali di Castellammare, combattute nel Golfo di Napoli, la flotta aragonese con al comando l'ammiraglio Ruggero di Lauria vinse nuovamente quella angioina, comandata da Carlo lo Zoppo, che in occasione del primo scontro venne catturato e tenuto in prigionia nel castello di Cefalù e rischiò la pena capitale. Giacomo infatti premeva per la condanna a morte, mentre il padre Pietro, tramite Alaimo di Lentini, spinse per cercare un trattato di pace; tale situazione costò la fiducia ad Alaimo. Quest'ultimo avrebbe pagato di persona con la deposizione da Giustiziere e l'esilio sino al 1287 quando Alaimo venne giustiziato. Il Papa Onorio IV, successore di Martino, pur mostrandosi più diplomatico del predecessore non accettò la sollevazione del Vespro e l'11 aprile 1286 confermò la scomunica per il Re Giacomo di Sicilia ed i vescovi che avevano preso parte alla sua incoronazione a Palermo il 2 febbraio 1286; tuttavia, né il Re né i vescovi se ne preoccuparono. Il re inviò addirittura una flotta ostile sulla costa romana e distrusse col fuoco la città di Astura. Nel 1288 Roberto d'Angiò venne catturato e tenuto in ostaggio dal Re Giacomo per costringere gli angioini a firmare un armistizio nel 1295. Nel 1291 Alfonso III d'Aragona firmò a Tarascon un trattato con Papa Niccolò IV e Carlo II d'Angiò che prevedeva l'espulsione del fratello Giacomo dalla Sicilia, ma l'accordo non ebbe alcun effetto nella guerra.

Federico III d'Aragona

Alfonso morì nel 1291 e Giacomo, suo successore salì quindi sul trono di Aragona lasciando la luogotenenza in Sicilia al fratello Federico che subito si mostrò molto attento alle istanze dei siciliani. Il Trattato di Tarascon rimase inapplicato e Papa Nicola IV colse l'occasione per lanciare una crociata contro il regno d'Aragona comandata da Carlo di Valois. Nello stesso momento erano in difficoltà anche gli angioni così Giacomo II di Aragona e con Carlo II d'Angiò cercarono con il Trattato di Anagni firmato il 12 giugno del 1295 una via d'uscita dal conflitto del Vespro. Il trattato avrebbe previsto la ritirata degli aragonesi dall'isola e la riconsegna agli Angiò. Così i siciliani si sentirono abbandonati ed in questo contesto il Parlamento siciliano, riunito al Castello Ursino di Catania, elesse a Re di Sicilia Federico disconoscendo Giacomo. Il piano di alleanze fu stravolto: da questo momento i Siciliani continuarono la lotta sotto la reggenza di Federico, contro sia gli Angioini che gli Aragonesi di Spagna del Re Giacomo. La reggenza di Federico acuì però il malcontento di alcuni grossi feudatari fra i quali l'ammiraglio Ruggero di Lauria che si asseragliò prima nel castello di Aci e successivamente entro le mura di Castiglione di Sicilia, suo feudo impegnando gli aragonesi in un logorante assedio (1297). L'ammiraglio Ruggero passò quindi dalla parte angioina-aragonese di Spagna e vinse Federico il 4 luglio del 1299 nella «Battaglia navale di Capo d'Orlando».
Il 31 dicembre del 1299 durante la «Battaglia di Falconara», tentativo dei francesi di riconquistare la Sicilia e che venne combattuta fra Mazara del Vallo e Marsala, il generale aragonese Martino Perez de Roisviene vincitore fece prigioniero Filippo I d'Angiò figlio di Carlo II. Il 4 luglio del 1300 nella «Battaglia navale di Ponza» Ruggero di Lauria batteva nuovamente gli aragonesi facendo prigioniero Federico III e Palmiero Abate. Il re riuscì poi a fuggire, mentre Palmiero morì di stenti in prigionia pochi mesi dopo.
Con la fine di Palmiero, scompariva l'ultimo dei promotori del Vespro, dopo Gualtiero e Alaimo che vennero giustiziati e Giovanni da Procida, l'unico, quest'ultimo a morire di morte naturale.

Le fazioni «latine» e «catalane»

Alla conclusione del XIII secolo il regno di Trinacria iniziava ad essere logorato da fazioni che facevano capo alle principali famiglie nobiliari: alla «fazione latina», legata al partito svevo-ghibellino appartenevano principalmente i Ventimiglia, i Chiaramonte, i Palizzi, i Lanza, gli Uberti; alla «fazione catalana», legata agli aragonesi appartenevano gli Alagona questi specialmente alla corte di Sicilia ed i Moncada maggiormente vicini alla corte di Barcellona[5], e Matteo Sclafani i Rosso ed inoltre si possono menzionare i Lentini anche se spesso vennero accostati alla casata angioina (Nel corso dei successivi anni '30 del 1300 si aggiungeranno a questa fazione i Peralta). La guerra civile proseguirà ben oltre il Vespro, in questo periodo e con alcuni trattati si tentò invano di ricomporre la pace fra le fazioni. Il maggior trattato è del 4 ottobre 1362 che venne firmato tra le fazioni latina e catalana.

La Pace di Caltabellotta

La Madrice a Caltabellotta vicino a cui sorgeva il castelloLa pace di Caltabellotta fu il primo accordo ufficiale di pace firmato il 31 agosto 1302 nel castello della cittadina siciliana fra Carlo di Valois, come capitano generale di Carlo II d'Angiò, e Federico III d'Aragona; tale trattato concluse quella che viene indicata come la prima fase dei Vespri. L'accordo limitava il regno di Carlo II al meridione peninsulare d'Italia ed il titolo di Re di Sicilia, mentre stabiliva che Federico continuasse a regnare in Sicilia, con il titolo di Re di Trinacria. Inoltre, prevedeva che Federico sposasse Eleonora, sorella del duca di Calabria Roberto d'Angiò e figlia di Carlo I. Infine, la pace prometteva che, alla morte di Federico il regno sarebbe tornato agli angioini.
Grazie a questo accordo si avviò anche una ricongiunzione fra la corte aragonese e diversi signori ribelli come Ruggero di Lauria.

Pietro II e la ripresa della guerra

L'accordo di Caltabellotta serviva a Federico per riorganizzare il proprio regno fortemente indebolito dai duri anni di guerra e ciò riusci al monarca sino a quando cercando di eludere il trattato di pace di Caltabellotta assegnò la corona di Re al figlio Pietro, evitando così di far ereditare la corona agli angioini come previsto dagli accordi. Pietro regnò così a partire dal 1321, ben quindici anni prima della morte di Federico (1336), e ciò provocò la inevitabile reazione angioina e la ripresa della guerra.

La pace di Catania

Alla morte di Pietro (1342) succedeva il figlio Ludovico sotto tutela di Giovanni d'Aragona, perché di soli cinque anni. Fu probabilmente grazie alla diplomazia di Giovanni che si raggiunse un accordo con gli Angioini siglato nel Castello Ursino di Catania l'8 novembre 1347 e che andava a chiudere quella che viene definita la seconda fase dei Vespri.

Il trattato Avignonese: la fine della guerra dei novant'anni

Tuttavia Giovanni contagiato dalla epidemia di peste perì ed il giustiziere Blasco II Alagona mal visto dal Parlamento siciliano non riuscì a far ratificare l'accordo. Così la guerra proseguì, con il debole regno di Sicilia nelle mani di Federico IV d'Aragona incalzato dall'esterno dagli angioini, che erano riusciti a riconquistare buona parte dell'isola e dall'interno dall'anarchia causata da vari e potenti signori ribelli. Nel 1349 Eleonora, figlia di Pietro II andava in sposa a Pietro IV d'Aragona in base ad un importante accordo che prevedeva la rinuncia della Spagna alle pretese sulla Sicilia. Una ulteriore ed importante svolta si ebbe nel 1356 quando il governatore di Messina, Niccolò Cesareo, in seguito a dissidi con Artale I Alagona, richiese rinforzi a Ludovico d'Angiò, che inviò il maresciallo Acciaiuoli. Le truppe, assistite dal mare da ben cinque galee angioine saccheggiarono il territorio di Aci, assediando il castello. Proseguirono quindi in direzione di Catania cingendola d'assedio. Artale uscì con la flotta ed affrontò le galere angioine, affondandone due, requisendone una terza, e mettendo in fuga le truppe nemiche. La battaglia navale, che si svolse fra la borgata marinara catanese di Ognina ed il Castello di Aci, fu detta «Lo scacco di Ognina» e segnò una svolta definitiva a favore degli aragonesi nella guerra del Vespro. Dallo Scacco di Ognina gli angioini non si sarebbero più ripresi tuttavia la guerra fra Sicilia e Napoli si trascinò sino al 20 agosto 1372 quando si concluse dopo ben novanta anni con il Trattato di Avignone firmato da Giovanna d'Angiò e Federico IV d'Aragona e con l'assenso di Papa Gregorio XI.