Storia di Sicilia

Preistoria - 35.000 - 5.000 a.C. - Tardo Paleolitico. I siciliani vivevano di caccia e raccolta. Graffiti nelle grotte di Monte Pellegrino e Levanzo testimoniano di questo periodo.

1.900 - 1.800 a.C. (ca.) - Gruppi di popolazione indoeuropee penetrarono in Sicilia fondendosi con gli indigeni e dando inizio all'Età di Bronzo. Reperti da Castelluccio, Naro, Filicudi, Siracusa, Pantalica.

1.400 a.C. - Si trovano tracce della civiltà egeo - cretese. Giungono in Sicilia gli Elimi, fondatori di Erice e Segesta, ed i Siculi. Questi ultimi importarono in Sicilia l'uso del cavallo, del rame, insegnano l'agricoltura e il culto dei morti.

1.200 - 1.000 a.C. - Ha inizio l'età del Ferro. Reperti da Barcellona, Pozzo di Gotto, Monte Finocchitto (Noto) Sant'Angelo Muxaro. Tra l'XI ed il X secolo giungono in Sicilia i Fenici che fondarono Solunto, Mozia e Palermo.

I Greci - 753 a.C. - Con la fondazione di Naxos da parte di coloni Greci, la Sicilia entra nella storia del Mediterraneo greco. Nel corso degli anni seguenti è tutto un fiorire di colonie: Siracusa (734), Catania (689) Selinunte (650), Agrigento (582). Le colonie si sviluppano fino a diventare vere e proprie città, ricche e ornate di monumenti.

485 a.C. - Gelone, tiranno di Gela, conquista Siracusa, che diverrà negli anni seguenti una delle principali città del Mediterraneo.

405 - 367 a.C. - Dionisio I il vecchio raggiunge l'apice del potere a Siracusa, facendosi eleggere tiranno della città. Assieme al re di Persia è il più magnifico principe del suo tempo per lo splendore della sua corte e per la potenza del suo esercito, capace di tenere in scacco i Cartaginesi che contendevano ai Greci il dominio della Sicilia.

316 - 289 a.C. - Agatocle tiranno di Siracusa, è il primo signore dopo la morte di Dionisio capace di competere con la potenza del suo predecessore, tenendo testa ai Cartaginesi e riportando Siracusa agli antichi splendori. Dopo la sua morte, la città si trova in mano ai governanti deboli fino all'ascesa al trono di Ierone II (276 a.C.), re mite ma di polso fermo che si allea con Roma, neonata potenza italica. Testimonianze monumentali della Sicilia greca a Siracusa, Agrigento, Selinunte, Segesta, Gela.

I Romani - 264 a.C. - I Mamertini, popolazione italica che aveva occupato Messina, sentendosi minacciati dai Cartaginesi, chiamano in aiuto i Romani, i quali, appoggiati in Sicilia a Ierone II, scatenano contro Cartagine la Prima Guerra Punica. Al termine di essa la Sicilia - ad eccezione dell'alleata Siracusa - viene proclamata provincia romana (241a.C.).

219 - 212 a.C. - Seconda Guerra Punica. I Romani conquistano e sottomettono anche Siracusa. La storia della Sicilia sotto i Romani non è particolarmente ricca di eventi, fatta eccezione per le rivolte servili (135 e 101 a.C.). E' una provincia tranquilla, apprezzata soprattutto per la produzione agricola. Reperti e testimonianze monumentali a Termini Imerese, Tindari, Taormina, Catania, Piazza Armerina ed altri.

I Barbari - 440 d.C. - Genserico, re dei Vandali, sbarca a Lilibeo (oggi Marsala) e devasta la Sicilia.

Dopo una serie di scorribande occasionali negli anni seguenti, nel 468 inizierà un vero e proprio dominio che durerà fino al 476. Alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente la Sicilia sarà ceduta a Odoacre che a sua volta passerà il Governo ai Visigoti di Teodorico.

I Bizantini - 535 - Guerra greco-gotica. Fu scatenata per volere di Giustiniano, imperatore d'Oriente, che desiderava ricomporre l'integrità dell'impero. In Sicilia viene inviato il generale Belisario che rapidamente conquista l'isola consegnandola all'imperatore. La Sicilia rimase nell'orbita orientale per quasi tre secoli, assorbendone numerosi aspetti sociali e culturali. Testimonianze monumentali a Randazzo, Castelbuono, Pantalica.

Gli Arabi - 827 - Gli arabi sbarcarono a Mazara, dando inizio alla campagna di conquista dell'isola. Essa verrà completata nell'arco di 100 anni e segna un profondo mutamento per la vita sociale e culturale della Sicilia che viene catapultata nel mondo musulmano dopo secoli di cristianesimo. La capitale siciliana è Palermo, splendida metropoli di stampo islamico. Testimonianze monumentali a Palermo, Favara, Cefalà Diana, Caccamo.

I Normanni - 1060 - Guidati da Roberto il Guiscardo e da Ruggero d'Altavilla, i Normanni cominciarono con la benedizione papale la riconquista della Sicilia alla cristianità. Riusciranno nella loro impresa nell'arco di 31 anni. I discendenti di Ruggero d'Altavilla saranno re di Sicilia fino al 1194, e lasceranno il ricordo di un regno prosperoso e pacifico, crogiolo dei popoli più diversi eppure perfettamente integrati fra loro. Sarà soprattutto Ruggero II, figlio del precedente a dare impulso vitale a questo regno con una sapiente azione amministrativa che coinvolgeva tutte le etnie. La capitale è ancora Palermo, magnifica città ornata di palazzi e di giardini. Testimonianze monumentali a Palermo, Monreale, Cefalù, Messina, Piazza Armerina, Caccamo, Troina, Calascibetta, Favara ed altri.

Gli Svevi - 1194 - Con l'incoronazione di Enrico VI Hohenstaufen a re di Sicilia, il trono passa alla famiglia tedesca degli Svevi. Alla sua morte erediterà il titolo il figlio Federico II (incoronato nel 1208) uno dei più grandi monarchi del Medioevo. Alla sua corte palermitana, fioriscono le arti, le scienze e la letteratura, tanto che la prima scuola poetica italiana vedrà la luce proprio tra le mure di Palazzo dei Normanni. Testimonianze monumentali a Siracusa, Catania, Salemi, Agrigento.

Gli Angioini - 1270 - La morte di Federico II scatena aspre lotte per la successione. Il Papa, da tempo in lotta con lo Svevo, assegna arbitrariamente la corona a Carlo d'Angiò e con l'esercito di quest'ultimo, venuto a far valere i propri diritti, si scontreranno gli eredi diretti di Federico: il figlio illegittimo Manfredi ed il nipote Corradino. Avuta la meglio su entrambi, Carlo d'Angio si insedia sul trono e, spostata la capitale a Napoli, dà inizio ad un governo vessatorio, mal sopportato dai siciliani. Testimonianze monumentali a Sperlinga.

Gli Aragonesi - 1282 - Rivolta del Vespro. Partita da Palermo, questa ribellione porterà alla definitiva cacciata dei Francesi dalla Sicilia. Il trono dell'isola passa a Pietro d'Aragona, genero di Manfredi. Testimonianze a Palermo, Messina, Caltanissetta, Trapani, Agrigento, Taormina, Mussomeli, Aragona, Augusta.

Gli Spagnoli - 1409 - Con l'estinguersi della linea siciliana degli Aragona, i rapporti diretti dell'isola con la corona spagnola si fanno più stretti. Il matrimonio tra Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia pone le basi per la nascita di uno stato spagnolo di cui anche la Sicilia fa ormai parte. L'isola è governata da viceré e resterà alla corona spagnola per 300 anni circa. Testimonianze monumentali a Taormina, Palermo, Siracusa, Enna, Nicolosi, Isole Egadi.

I Savoia e gli Austriaci - 1713 - Come stabilito nella pace di Utrecht, la Sicilia passa a Vittorio Amedeo II di Savoia. La famiglia piemontese manterrà la signoria dell'isola per appena cinque anni. Nel 1718, infatti, gli spagnoli intraprendono una campagna di riconquista, bloccati però dagli Austriaci. In base al trattato dell'AIA (1720) Carlo VI d'Austria diventa nuovo re di Sicilia.

I Borboni - 1734 - Con la Battaglia di Bitonto tra le truppe borboniche e austriache, la Sicilia rientra nell'orbita spagnola. Carlo I di Borbone, figlio del re di Spagna, verrà incoronato re di Sicilia nel 1735. Testimonianze monumentali a Palermo, Noto, Avola, Ragusa, Modica, Catania, Siracusa e Trapani.

Il Regno d'Italia - 1860 - A seguito dell'impresa garibaldina la Sicilia viene annessa al regno d'Italia. Da allora l'isola seguirà le sorti del neonato regno.

L'Autonomia - 1946 - Al termine della seconda guerra mondiale la Sicilia diviene Regione Autonoma nell'ambito della nuova Repubblica Italiana. Il suo Parlamento si riunisce dal 1947 nel Palazzo dei Normanni - come già faceva più di otto secoli fa.

Numerosi resti paleolitici rinvenuti in Sicilia, testimoniano la presenza di antichi insediamenti umani; alcune tracce di questi resti sono visibili nelle grotte dell'Addaura, vicino Palermo.
Dislocate in più punti dell'isola, la testimonianze dell'età neolitica raccontano la cultura delle origini: interessanti grotte si trovano, ad esempio, presso gli arcipelaghi delle Egadi e delle Eolie, a Stentinello (Siracusa), a San Cono (Caltanissetta) e a Villafrati (Palermo). All’età dei metalli si fanno risalire intere necropoli come quelle di Cassibile e di Pantalica. I reperti più antichi confermano la presenza di identità etniche appartenenti a tre diversi gruppi: elimi, sicani e siculi. Secondo quanto riporta lo storico Tucidide, la Sicilia orientale era popolata dai siculi, il centro dai sicani e l'occidente dagli elimi, essendo non indoeuropei questi ultimi due e sicuramente indoeuropei i primi. Anche i fenici, di origine semitica, fondano le loro basi commerciali nell'isola a partire dall'età dei metalli. Dell'età del ferro rimangono tracce di villaggi di capanne, come a Monte Finocchito. Le zone di maggiore interesse archeologico, attraverso cui leggere la storia di queste popolazioni, risultano essere Solunto, Jato e Himera. In particolare, sul Monte Jato (distante circa trenta chilometri da Palermo) si sono concentrate le ricerche degli ultimi trenta anni. Il prof. Peter Isler, dell'Università di Zurigo guida, dal 1971, un gruppo di archeologi alla scoperta di Monte Jato: gli scavi hanno portato alla luce uno splendido teatro, l'agorà (la piazza), strutture residenziali private, il tempio di Afrodite, le fortificazioni ed altre testimonianze della grande città sepolta.

Il paleolitico

Non essendoci pervenute tracce scritte, possiamo interpretare gli eventi relativi alle civiltà preclassiche solamente attraverso i manufatti o le modificazioni dell’ambiente naturale. Gli studiosi sono d’accordo nel ritenere che le manifestazioni artistiche fondano i valori formali arcaici e che questi persistono anche in civiltà successive. In tal senso non ci si può riferire alla prima età della pietra senza considerarne l’arte. Una delle più realistiche espressioni d’arte rupestre del paleolitico superiore è quella costituita dalle incisioni parietali preistoriche, raffiguranti scene rituali o di iniziazione, ritrovate nelle grotte dell’Addaura, presso Palermo; in cavità naturali come quelle dell'Addaura, l'uomo trova riparo, celebra i primi riti propiziatori, seppellisce i sui morti e disegna graffiti dal significato magico e augurale. Al paleolitico inferiore risalgono arnesi in pietra scheggiata, scoperti ad Agrigento nel 1968. Si tratta di ciottoli scheggiati su una faccia a forma di mezzaluna o di bifronti semplici. Questi oggetti si trovano in abbondanza nell'Africa del nord, sede di importanti esempi di arte cavernicola. Nel 1950, la grotta della Cava dei Genovesi, nelle Egadi, ha rivelato interessanti disegni di animali incisi e curiose figure antropomorfe stilizzate, dipinte in nero.

Il neolitico

La vita nell’età neolitica risale in media all’VIII millennio a.C. e si esprime, per la prima volta, nell’indipendenza dell’uomo dalla natura. L'uomo, infatti, non vive più dei frutti spontanei della caccia, della raccolta o della pesca ma elaborera la domesticazione, l’allevamento del bestiame e l’agricoltura. Tra le conquiste culturali di maggiore rilievo c'è la navigazione, la lavorazione della ceramica e la tessitura. I primi insediamenti neolitici dell’area mediterranea sono individuati nelle regioni del Medio Oriente e nel basso corso del Nilo, da cui si sono diffuse, in seguito, varie correnti culturali verso l’Occidente. In Sicilia, così come in Liguria e in Puglia, l'età neolitica ha generato la cultura della ceramica impressa: lo testimoniano siti archeologici noti come, ad esempio, Stentinello, San Cono e Villafrati. In particolare Stentinello deriva il suo nome deriva da un villaggio fortificato situato 5 km a nord di Siracusa, in cui si trovano resti di capanne a pianta rettangolare, vasi di terracotta decorati a impressione (con il punzone o con l’unghia) e utensili litici di selce, basalto e ossidiana. Non mancano ulteriori resti di civiltà neolitica a Matrensa e Megara Hyblea.

L'età dei metalli

Verso il 2500 a.C. appare in Europa occidentale il primo metallo, il rame, che l’uomo fuse con lo stagno ottenendo il bronzo. Con l’età del bronzo si entra nella protostoria, cioè nel periodo di transizione compreso tra i tempi storici e quelli preistorici. Nella Protostoria si elaborano le prime documentazini scritte; a partire da queste documentazioni ricaviamo i limiti cronologici, che variano in relazione ai diversi paesi: nell'Europa occidentale la protostoria coincide con la prima età del ferro. Gli scavi stratigrafici di Chiusazza, vicino Siracusa, hanno portato alla luce manufatti in ceramica dell’età del rame; questa ceramica è stata classificata in diversi tipi i più antichi dei quali sono anteriori al protoelladico greco e si apparentano ai tipi tardivi del neolitico nella Grecia continentale. La ceramica dei bellissimi vasi monocromi rossi, semi ovoidali di Malpasso, e quella del fiaschetto a collo alto di Monte Sant’Ippolito, si fa risalire ad un tipo noto a Cipro, della prima età anatolica del bronzo.

L’Età anatolica del bronzo

Durante l’età del bronzo si fa sempre più imponente in Sicilia l’influenza della civiltà micenea, allora nel suo primo sviluppo marittimo ed espansionistico. Appartengono a questo periodo le tombe scavate nella roccia, con ampia cella preceduta da un vano di accesso, rinvenute a Pantalica, a Monte Sant’Ippolito, a Castelluccio e a Cassibile. L'abbondanza dei reperti ritrovati permette di stabilire una cronologia relativamente precisa. Favorite dalla vicinanza dello Stretto di Messina e dall'esperienza dei propri marinai, le Isole Eolie vivono una brillante rinascita. Negli strati di Capo Graziano (Filicudi) si trovano prodotti egei appartenenti alla fine dell'elladico medio (1580 - 1550) e al miceneo (1550 - 1400 a.C.); si tratta di ceramiche ad impasto piuttosto grossolano, ornate di linee incise e punti, derivate da un prototipo dell'elladico medio del Peloponneso (plimia). Nella stessa zona si trovano armi ed attrezzi di pietra, stampi per oggetti di bronzo e fusi che attestano l'uso della filatura e della tessitura. In Sicilia, la civiltà detta di Castelluccio sembra contemporanea all'elladico medio e recente (1800 - 1400 a.C.). Rinvenimenti risalenti alla civiltà di Castelluccio sono le tombe che si presentano come piccole celle arrotondate aperte verso l'esterno da una finestrella che dà su un pozzetto o su una specie di edicola, e chiusa da una lastra, talvolta scolpita con decorazioni a spirale. Arricchiscono il decoro funerario trovato all'interno di queste tombe, lame in ossidiana, asce in basalto, armi in pietra e statuette sacre. Tipica dell'elladico medio è la ceramica a fondo giallo e rosso, dipinta con linee marroni o nerastre e la ceramica "cappadoce" dell'Anatolia centrale. Di chiara influenza occidentale è il "bicchiere campaniforme" iberico, di cui ritroviamo alcuni richiami nei rinvenimenti della parte nord-occidentale della Sicilia. Solo alla fine del II millennio a.C. ha inizio l’età del ferro che ha visto la definitiva indoeuropeizzazione delle popolazioni mediterranee della penisola. Tale fenomeno porta alla costituzione, in Italia, di un vero e proprio mosaico di popoli: quelli che parlano lingue pre-indoeurope e quelli che invece usano idiomi di origine indoeuropea. I primi, più antichi, sono stanziati nella fascia tirrenica e nella Sicilia occidentale, gli altri occupano la costa orientale. I popoli non indeuropei sono invece gli elimi e i sicani nella Sicilia centro-occidentale, e i fenici di origine semitica che mantengono le loro basi commerciali nell'isola. I siculi sono sicuramente indeuropei e si affermano nella Sicilia orientale.
Dell'età del ferro rimangono tracce di villaggi di capanne, come a monte Finocchito mentre le ceramiche e gli oggetti metallici rinvenuti, testimoniano scambi commerciali con i popoli ellenici.

Gli Elimi

Stanziatisi nella parte nord-occidentale della Sicilia, probabilmente prima dell'avvento dei coloni fenici, gli elimi fanno di Segesta, Erice ed Entella i loro centri principali. La storia di questo popolo si conclude già nel IV sec. a.C. e le testimonianze a noi pervenute dicono poco. Secondo il mito, Elimo era un principe troiano, figlio di Anchise e fratellastro di Enea.

I Sicani

Gli studi archeologici fanno risalire al III millennio a.C. l'arrivo dei sicani nella Sicilia occidentale, in particolare nella parte situata ad ovest dell'Imera del sud (Salso). I loro contatti con la civiltà minoica sono stati convalidati da scoperte recenti mentre non sono tuttora chiari i rapporti esistenti con i vicini elimi. Giunti probabilmente dalla Spagna, i sicani fanno di Iccara, Inico e Indara i loro centri principali.

I Fenici

L’infiltrazione fenicia in Sicilia non è datata in modo certo. Probabilmente il popolo, il cui nome deriva dal greco “phôinix” e significa rosso, in relazione alle stoffe purpuree da esso prodotte, si è stanziato nella parte occidentale dell’isola in età anteriore a quella ellenica (o forse contemporaneamente agli elleni). Le difficoltà a precisarne la storia derivano non soltanto dalla scarsa documentazione ma anche dal tipo di organizzazione politica che, sebbene aiuti la ricostruzione storica delle diverse città fenicie, non agevola quella unitaria del paese. Gli stanziamenti fenici si ritrovano in tutto il Mediterraneo; in questo mare i fenici diventano gli intermediari tra Oriente ed Occidente. Ma il momento di massima espansione si ha dall’XI secolo in poi, quando i fenici si stabiliscono nella Sicilia orientale e nelle isole di Malta, di Gozo e di Pantelleria. Anche l’origine di Palermo è fenicia così come quella della non lontana Solunto, di San Pantaleone (vicino Marsala) e della piccola Mozia. Nell'isolotto di Mozia recenti scavi hanno consentito di identificare un Tophet, replica del Santuario di Baal-Hammon a Cartagine. Diversamente da quelle greche le colonie fenicie non erano organizzate come città stabili, ma come punti di scambi commerciali in relazione alla loro attività principale, quella marittima e mercantile. Con i maestosi cedri del Libano, i fenici costruivano agili imbarcazioni per navigare nel Mediterraneo e così le coste raggiunte sono state attivate nel tempo da porti fiorenti.
Si racconta che, gelosissimi della loro supremazia sul mare, questo popolo teneva in segreto le rotte da seguire e diffondeva leggende terribili per scoraggiare la concorrenza. Sono stati, infatti, i fenici ad inventare l’esistenza di Scilla e Cariddi: i due mostri che affondavano le navi nello stretto di Messina. L’esigenza di facilitare i rapporti con i popoli più diversi ha spinto probabilmente i fenici ad elaborare una scrittura semplice e veloce: nasce così l’alfabeto della città di Biblo con ventidue segni corrispondenti ai principali suoni della voce umana. Dall’alfabeto fonetico sono derivati quello ebraico, quello greco e quello romano ancora oggi in uso.

I Siculi

Soppiantando lentamente i sicani, il popolo siculo, che risale al II millennio a.C., si è insediato nella parte orientale dell'isola. I dati che si possiedono sulla loro lingua provano una certa affinità con il latino. Nemici dei greci, così come i sicani, ne assorbirono tuttavia la loro cultura. Ai siculi si attribuisce il culto dei Palíci.

(735 a.C. - 212 a.C.)

Colonizzazione

La storia del periodo greco della Sicilia si fa risalire convenzionalmente alla fondazione della prima colonia, quella di Naxos nel 735 a.C., fondata da coloni Calcidesi. Con questo fatto la Sicilia entra a pieno titolo nella storia del Mediterraneo greco. Negli anni seguenti è tutto un susseguirsi di insediamenti di coloni che porranno le basi della storia della Sicilia dei secoli successivi determinandone la lingua, la cultura e l'arte. Siracusa nasce nel 734 a.C. ad opera di coloni corinzi, Messina nel 730 a.C., Catania nel 729 a.C. grazie ai calcidesi, Megara Hyblaea nel 728 a.C. dai megaresi, Gela nel 689 a.C. fondata da rodiesi e cretesi, Selinunte nel 650 a.C. da coloni megaresi, Akragas (Agrigento) nel 581 a.C. da gelesi: tutta la costa orientale quindi viene colonizzata dai greci, poiché le stesse colonie, sviluppatesi creano altre colonie. È l'esempio di Siracusa, la più importante città greca dell'isola che fonda anche le colonie di: Akrai (664), Casmene (643) e Kamarina (598).

Le motivazioni della colonizzazione

Secondo lo storico greco Tucidide, le prime fondazioni coloniali furono opera di aristoi, aristocratici esclusi dalle città dopo le lotte intestine seguite al ritorno dalla guerra di Troia; era infatti difficile armare una nave anche piccola senza capitali. Tuttavia la scelta dei primi siti evidenzia soprattutto una strategia di tipo commerciale: Naxos, Messina, Reggio, Catania, Siracusa sono tutti porti che si trovano lungo una delle delle rotte commerciali più importanti del tempo ed assumono una funzione sia di base che di controllo. Che un'antica rotta marina attraversasse lo Stretto di Messina non è attestato solo dal fatto che le più antiche colonie greche in Sicilia si situino tutte lungo la costa orientale dell'isola, ma anche dal fatto che esse furono precedute in Magna Grecia dalla prima colonia, la più antica, quella di Cuma (circa 750 a.C.), sulla costa tirrenica della Campania. Cuma era stata preceduta a sua volta, qualche decennio prima, dall' emporion di Pithecusae (Lacco Ameno, Ischia). A Ischia (Casamicciola-Castiglione) sono stati trovati frammenti ceramici micenei riferibili al Miceneo IIIA (1425-1300 a.C.) che forniscono una testimonianza di insediamenti dell'epoca. E nella vicina isola di Procida, a Vivara, sono stati rinvenuti insediamenti dell'età del bronzo caratterizzati da ceramica d'impasto locale associata a frammenti di ceramica micenea risalente al Miceneo I (1580-1400 a.C. ca.) e scorie ferrose; queste sono risultate, alle analisi, provenienti dall'isola d'Elba. Tutto ciò testimonia che la rotta marina attraverso lo Stretto esisteva fin dall'epoca micenea ed era dovuta alla necessità che avevano le genti greche di approvvigionarsi di metalli - ferro in primo luogo - che esse andavano a procurarsi in Toscana. Le città greche da cui i coloni provenivano, le metropoleis in genere erano anche origine del nome delle città fondate, le poleis. Queste, una volta consolidate, creavano delle sottocolonie a scopo militare o commerciale. Akrai e Casmene furono infatti probabili avamposti militari di Siracusa.

I rapporti e le relazioni con i popoli preinsediati

I rapporti con le popolazioni non greche, Sicani, Siculi ed Elimi e soprattutto con i Cartaginesi furono sovente molto conflittuali ma a volte, soprattutto all'inizio, improntati a strategie mutevoli. Di regola solo il capo della spedizione recava con sé la propria donna; tutti gli altri negoziavano con i locali o ricorrevano al rapimento delle donne necessarie. Ciò determinava rapporti amichevoli o viceversa conflittuali. Dal punto di vista commerciale la strategia era in genere quella di inserire nelle città sicule un nucleo di greci che si occupava delle acquisizioni o delle transazioni di merci e prodotti. Ciò deve essere avvenuto in qualche modo anche con le città fenice. Proprio la loro capitale, Mozia, risulta infatti indifesa per quasi due secoli: le sue mura infatti non sono state costruite che nel VI secolo a.C. e coprono in parte la necropoli arcaica nelle cui tombe si è rinvenuta della ceramica greca di VII secolo a.C. Tutto ciò significa che i rapporti tra Fenici e Greci erano agli inizi pacifici, improntati soprattutto sul commercio. Sicuramente una comunità di Greci dovette vivere stabilmente nella stessa città, come ci viene attestato dagli storici antichi che, parlando della distruzione di Mozia da parte di Dionisio di Siracusa, ci dicono che il tiranno, prima di ritirarsi dall'isola devastata e saccheggiata, non mancò di giustiziare i cittadini Greci di Mozia che durante l'assedio, nell'ultima strenua difesa della città, si erano schierati invece dalla parte dei Fenici. Anche a Occhiolà, (l'antica Grammichele), e a Morgantina sembra esservi insediato un nucleo greco, probabilmente calcidese sin dalla metà del VI secolo a.C.. Dalle attuali conoscenze sembra che entro il 500 a.C. fosse già stata ellenizzata l'area sicula fino ad Enna. Tuttavia ben presto i Siculi si trovarono in una posizione di schiavitù simile a quella degli Iloti a Sparta: erano legati al loro territorio senza essere proprietà vera e propria di qualcuno. Secondo Erodoto erano definiti killichirioi. La pressione delle nuove popolazioni greche determinò lo spostamento delle preesistenti popolazioni dei Siculi e dei Sicani, sempre più all'interno; costrette ad abbandonare la costa, divennero spesso un problema per le nuove colonie. Non di rado infatti avvennero scontri per la contesa dei territori e in seguito vere e proprie rivolte.

Il periodo democratico

Il VI secolo a.C. fu per la Sicilia un periodo di prosperità e di incremento demografico, ma con essi anche di conflitti sociali nelle città e tra popolazioni locali e Greci. Alcuni individui approfittarono di ciò e presero il potere attuando politiche espansionistiche con metodi dispotici ed anche brutali. Nel 570 a.C. Falaride divenne tiranno di Akragas; nel 505 a.C. Cleandro lo divenne di Gela; a lui seguì il fratello Ippocrate. Questi, assicuratosi il potere, si imbarcò in una campagna di conquista della Sicilia orientale: assoggettò Zancle, Naxos e Leontini ponendovi dei tiranni suoi fedeli. Il suo tentativo di conquista di Siracusa non riuscì, ma grazie ad un trattato del 492 a.C. ebbe Camarina; poi iniziò una campagna contro i Siculi nella quale trovò però la morte. Gli succedette Gelone nel 491 a.C., il quale trasferì la sua sede a Siracusa dopo averla conquistata nel 485 a.C.; lì ne fu il potente tiranno, lasciando il fratello Ierone a capo di Gela. L'ascesa al potere di Gelone a Siracusa, determinò un rafforzamento della presenza greca in Sicilia. Egli infatti condusse una serie di battaglie atte ad allontanare le crescenti pressioni delle popolazioni dei Siculi e dei Sicani. Inoltre trasformò Siracusa in una città potente, con una marina ed un esercito agguerriti, ripopolandola con il trasferimento della popolazione di Gela ed incorporando una parte dei megaresi sconfitti. In soli dieci anni Gelone divenne l'uomo più ricco e potente del mondo greco e con la sua alleanza con Terone ebbe il controllo della maggior parte della Sicilia Greca, eccetto Selinunte e Messina (che era sotto il controllo di Anassila di Reggio). Quando Terillo di Himera e Anassila chiesero l'aiuto di Cartagine, questa non si fece pregare ed intervenne. Ma egli radunò tutte le forze greche della Sicilia: lo scontro decisivo si ebbe a Imera, in una famosa battaglia avvenuta nel 480 a.C. dove Gelone grazie all'alleanza con Terone di Agrigento riuscì a riportare una storica vittoria; Amilcare venne ucciso, le sue navi bruciate e i Cartaginesi catturati venduti come schiavi. Inoltre Cartagine dovette pagare un pesante indennizzo e - scrive Erodoto[senza fonte] - nel trattato stipulato, Gelone inserì che essi dovevano rinunciare ai sacrifici umani (soprattutto l'immolazione dei figli primogeniti; vedi Tofet). Nel 476 a.C. alla sua morte gli successe il fratello Ierone; nello stesso anno, vinte Catania e Naxos, ne deportò gli abitanti a Leontini e rifondò Catania con il nome di Etna affidandola al figlio Dinomene e ripopolandola con coloni del Peloponneso. Nel 474 a.C. in risposta ad un appello della città greca di Cuma, o forse per contrastare le mire espansionistiche degli Etruschi, egli armò una potente flotta e li sconfisse nella battaglia al largo della città campana:Megacazzise,

Il periodo demografico (466-405 a.C.)

I resoconti di Diodoro Siculo presentano un quadro fosco degli ultimi tiranni: sia Trasibulo, succeduto a Ierone a Siracusa, che Trasideo ad Akragas vengono definiti "violenti e assassini". Sarà infatti la loro dispotica crudeltà a spingere alle rivolte che metteranno fine al primo periodo della Tirannia in Sicilia. Secondo Aristotele tuttavia, furono soprattutto le lotte all'interno delle famiglie a determinare la caduta delle tirannidi. Il primo ad essere rovesciato fu Trasideo di Akragas, che dopo una pesante sconfitta da parte di Ierone di Siracusa fu cacciato e sostituito da un governo democratico. Toccò poi a Trasibulo sconfitto da una coalizione di insorti siracusani e truppe sicule di Akragas, Gela, Selinunte e Imera. Rimarrà al potere solo Dinomene ad Etna (Catania) fino a quando una coalizione siculo-siracusana costringerà la popolazione a fuggire, rifugiandosi sui monti ad est di Centuripe ad Inessa ribattezzata Etna. Di conseguenza Catania riprese il suo antico nome e venne ripopolata dagli esuli cacciati ai tempi di Ierone e con coloni siracusani e siculi. Nello stesso periodo Messina si liberò dalla signoria di Reggio. Nel 452 a.C. un siculo ellenizzato di nome Ducezio che aveva partecipato all'assedio di Etna a fianco dei Siracusani, sollevò un vasto movimento di rivolta nazionalistica, una vera e propria lega sicula. Partendo dalla nativa Mineo attaccò e distrusse Inessa-Etna e Morgantina e fondò alcune colonie in punti strategici per controllare il territorio; tra queste Palikè nei pressi dell'antico santuario dei Palici. Verso il 450 a.C. però, attaccato dai Siracusani, venne pesantemente sconfitto e costretto ad andare in esilio a Corinto. Non vi rimase molto tempo: con un piccolo gruppo di Greci del Peloponneso sbarcò in Sicilia e vi fondò una città, Kale Akte ove rimase fino alla morte nel 440 a.C. Negli anni che seguirono Siracusa tornò a sottomettere quasi tutti i territori da lui "liberati". Intanto in Grecia (nel 431 a.C.) era scoppiata la guerra del Peloponneso che coinvolse pesantemente le colonie di Sicilia. Nel 427 a.C., nella guerra tra Leontini e Siracusa, erano di nuovo coinvolti anche gruppi di Siculi, oltre Catania, Naxos, Camarina (dalla parte di Leontini), e Imera e Gela dalla parte di Siracusa. Dopo tre anni, nel 424 a.C. venne siglato un accordo di pace con il patrocinio del siracusano Ermocrate, preoccupato per la presenza delle truppe ateniesi. Queste, a seguito di ciò, ritornarono in patria. Nel 422 a.C. scoppiò la guerra civile a Leontini e questo fornì il pretesto per un nuovo intervento di Siracusa; la città venne rasa al suolo e il partito oligarchico vincente si trasferì a Siracusa. Il conflitto intanto si spostava nella zona occidentale; nel 416 a.C. erano Selinunte (appoggiata da Siracusa), e Segesta (che dopo il rifiuto di aiuto da parte di Cartagine si era rivolta ad Atene) a lottare tra loro. Atene nel 415 a.C. inviò Alcibiade con una flotta di 250 navi e 25.000 uomini in aiuto, ma la spedizione ateniese in Sicilia finì in un disastro. Ulteriori aiuti nel 414 a.C. e nel 413 a.C., con un esercito guidato da Demostene, non riuscirono a piegare la coalizione che intanto si era raccolta attorno a Siracusa. Alla fine del 413 a.C. gli Ateniesi erano in rotta; 7000 di loro fatti prigionieri furono rinchiusi nelle cave di pietra dove la maggior parte di essi morì; i sopravvissuti, marchiati come cavalli, vennero venduti come schiavi, mentre i comandanti Demostene e Nicia furono giustiziati. Siracusa festeggiò la vittoria, ma la vittoria non assicurò la pace interna. Il governo guidato da uno dei generali, Diocle, attuò una serie di riforme sul modello ateniese ed un codice di leggi, favorito in ciò dall'assenza di Ermocrate, impegnato al comando di una flotta in aiuto di Sparta. Nel 410 a.C. si riaccese il conflitto e Selinunte attaccò Segesta. In aiuto di questa giunse un piccolo esercito di mercenari cartaginesi. L'anno successivo sbarcò anche Annibale Magone con un ulteriore esercito e in sette giorni espugnò Selinunte, distruggendola e massacrandone gli abitanti. Annibale marciò poi verso Imera, ma qui trovò Diocle con l'esercito siracusano. Dopo pesanti scontri i Siracusani si ritirarono, gli Imeresi fuggirono via ma la metà di loro venne uccisa. Annibale fece quindi ritorno in patria e sciolse il suo esercito. Intanto Ermocrate, che era stato destituito dal comando della flotta dell'Egeo, con un piccolo esercito di profughi e mercenari e una flotta di cinque navi si insediò a capo di quel che rimaneva di Selinunte e attaccò le città tributarie di Cartagine. Siracusa in quel periodo era in pieno caos, Diocle venne mandato in esilio ed Ermocrate rientrato con la speranza di reinsediarsi venne invece ucciso.
Nella primavera del 406 a.C. i Cartaginesi tornarono con un potentissimo esercito, espugnarono Akragas che venne saccheggiata e depredata delle sue opere d'arte; per sette mesi i Siracusani si difesero valorosamente, al comando del giovane Dionisio, nominato comandante supremo. Intanto cadeva Gela e poi anche Camarina. A questo punto delle ostilità Dionisio riuscì a stipulare un trattato che metteva fine alla guerra, delimitando le rispettive zone di influenza. Gli insediamenti punici, elimi e sicani sarebbero appartenuti a Cartagine. Le popolazioni di Selinunte, Akragas, Imera, Gela e Camarina sarebbero ritornate alle loro città pagando un tributo a Cartagine con la condizione di non erigere mura. Leontini, Messina e i Siculi sarebbero stati liberi e Dionisio avrebbe governato Siracusa. Era così finita di fatto la parentesi democratica.
Il periodo storico dal 405 a.C. fino alla conquista romana sarà dominato dalle figure dei sovrani siracusani.

Dionisio I, il vecchio

Dionisio prese il potere per gradi e regnò su tutto il territorio della Sicilia fino a Solunto estendendo la sua potente influenza fino al golfo di Taranto ed arrivando a penetrare anche in territorio etrusco; attaccò e distrusse infatti il porto di Pyrgi (oggi Santa Severa) e saccheggiò Cerveteri nella campagna del 384 a.C. Già nel 404 a.C. aveva denunciato il trattato con Cartagine iniziando col sottomettere diverse colonie sicule e spingendosi fino ad Enna. Attaccò e distrusse poi Naxos e sottomise Catania deportandone gli abitanti. Nel contempo si dedicò a potenziare l'esercito adottando anche armi di nuova concezione come le catapulte. Costruì inoltre una potentissima flotta disboscando allo scopo ampie zone forestate dell'Etna. Nel 398 a.C. iniziò le ostilità contro Cartagine. Erice si arrese, mentre Motia dopo un anno di assedio fu distrutta e gli abitanti trucidati. L'anno dopo, il 396 a.C., i Cartaginesi ritornarono in forze, invasero quasi tutta la Sicilia e distrussero Messina, minacciando anche Siracusa. Tuttavia, sembra a causa della peste, dovettero fare la pace con Dionisio e tornarsene dopo aver pagato un grosso indennizzo. Messina venne ripopolata. Vi furono ancora guerre con Cartagine con alterne fortune e spargimenti di sangue fino alla sua morte avvenuta nel 367 a.C. Gli successe il figlio Dionisio detto il giovane; questi non fu all'altezza del padre e così il partito avverso capeggiato da Dione (il fratello della moglie siracusana del padre), gli fu ostile. Nel 357 a.C. Dione che era stato esiliato un decennio prima, con un migliaio di mercenari si recò ad Minoa dalla quale ottenne aiuto e marciò su Siracusa che gli aprì subito le porte e lo accolse. A seguito di ciò si scatenò un decennio di lotte nelle quali venne coinvolta Leontini ed altre città che finirono con l'indebolire l'impero siracusano in Sicilia.
Seguirono tutta una serie di assassinii che sconvolsero la vita di Siracusa. Callippo divenne tiranno di Catania e Iceta di Leontini. In questo periodo sembra si sia trovato coinvolto Platone (almeno secondo le notizie di Plutarco).

Timoleonte

Nel 346 a.C. Dionisio II ritornò a Siracusa, ma del periodo si hanno notizie frammentarie. Intanto ad Apollonia e ad Eugione, forse Troina aveva preso il potere Leptine, a Catania si era insediato Mamerco, a Centuripe Nicodemo, Apolloniade ad Agirio, Ippone a Zancle e Andromaco a Taormina. Il disordine politico però rendeva precario ogni equilibrio. Iceta esiliato a Leontini richiese aiuto a Corinto, la quale inviò un piccolo esercito agli ordini di Timoleonte. Questi, sbarcato a Taormina nel 344 a.C., avviò una campagna militare vittoriosa: in sei anni si impossessò di tutta l'isola; vennero destituiti tutti i tiranni e quasi tutti vennero uccisi, tranne Andromaco di Taormina che gli era amico. Nel 339 a.C. sbaragliò i Cartaginesi al fiume Crimiso (forse il fiume Caldo, affluente del S.Bartolomeo, nei pressi di Segesta) e si procurò un immenso bottino. Nello stesso anno, già avanti in età e forse cieco, si ritirò. Aveva ottenuto tuttavia il grande risultato di rendere più sicuro il futuro della Sicilia restaurando la democrazia a Siracusa (secondo Diodoro e Plutarco) anche se il potere reale era nelle mani del Consiglio dei 600. Siracusa e la Sicilia conobbero una nuova èra di sviluppo e prosperità. Rifiorirono Akragas e Gela, l'entroterra e Kamarina, Megara Iblea, Segesta e Morgantina.

L'età ellenistica
Agatocle

Il ritiro di Timoleonte dalla scena politica condusse ben presto ad un altro periodo di instabilità. Erano soprattutto conflitti di classe interni tra l'oligarchia al potere e il popolo di Siracusa. Scoppiarono anche guerre tra le città e ciò spianò la strada nel 317 a.C. al lungo regno di Agatocle che in queste guerre ebbe una parte rilevante. Era finita, sia in Grecia che in Sicilia, la lunga stagione di autonomia ed autogoverno delle città ed erano nate le monarchie ellenistiche.
La sua presa del potere a Siracusa avvenne con l'aiuto di veterani di Morgantina e di altre città dell'interno, durante due giorni di insurrezione popolare. Vennero uccise 4.000 persone di rango elevato ed esiliate altre 6.000 (secondo Diodoro); al termine, Agatocle venne eletto comandante unico e con pieni poteri. Come tutti i demagoghi promise la cancellazione dei debiti e la divisione delle terre. Nonostante le scarse notizie a disposizione, sembra che Agatocle abbia mantenuto le promesse. Le crudeltà a lui attribuite sembrano dirette infatti solo verso la classe degli oligarchi e mai verso il popolo e comunque sembrerebbero limitate ai primi tempi (secondo Polibio).
La Sicilia prosperò di nuovo; tuttavia il suo primo decennio fu segnato da conflitti con le oligarchie di Akragas, Gela e Messina appoggiate da Cartagine che nel 311 a.C. invase nuovamente la Sicilia. Agatocle assediato a Siracusa, a metà agosto del 310 a.C., affidata la difesa della città al fratello Antandro, salpò con 14.000 uomini e 60 navi per invadere il nord Africa. Bruciate le navi all'arrivo, stabilì la sua base a Tunisi, minacciando direttamente Cartagine. Amilcare, costretto a rimandare una parte degli uomini indietro, subì una pesante sconfitta, venne catturato e torturato a morte, poi la sua testa fu inviata ad Agatocle in Africa. Per attaccare, tuttavia, Agatocle aveva bisogno di altre truppe; alleatosi con Ofella, vecchio ufficiale di Alessandro Magno che governava la Cirenaica, ebbe disponibili ulteriori 10.000 fanti e cavalieri, di cui prese il comando dopo aver fatto assassinare, per motivi non noti, lo stesso Ofella. Con queste forze espugnò Utica e Hippon Akra, catturando una grande forza navale con i suoi cantieri e le sue basi; ma non gli riuscì di espugnare Cartagine. Notizie di insurrezioni in Sicilia nel 307 a.C. lo costrinsero a ritornare per domarle; ritornato in Africa, a causa dell'esaurimento delle risorse e del deterioramento del morale delle truppe, nel 306 a.C. trattò la pace. Cartagine manteneva Eraclea Minoa, Termini, Solunto, Selinunte e Segesta, ma rinunciava ai programmi di espansione. Fu a questo punto che assunse per se il titolo di re di Sicilia adeguandosi al nuovo uso ellenistico; nulla mutava di fatto, ma cambiavava la sua immagine nei rapporti di "politica estera". Si dedicò a questo punto ad estendere il suo regno in Italia, conquistò Leucade e Corcira, dandola poi in dote alla figlia quando questa sposò Pirro, il re dell'Epiro. Prese poi per terza moglie una figlia di Tolomeo d'Egitto. Sotto il suo lungo regno la Sicilia prosperò e le tracce archeologiche lo confermano. A settantadue anni, nel 289 a.C. venne assassinato per rivalità familiari di successione, ma dopo la sua morte tutto si dissolse rapidamente a causa dell'anarchia e delle lotte che seguirono. Tra le tante lotte, è da ricordare quella tra i cittadini di Siracusa e un gruppo di mercenari italici chiamati Mamertini. Per convincerli ad andarsene, venne loro offerto il porto di Messina, di cui si impadronirono massacrandone la popolazione maschile e spartendosi donne e bambini. Si resero subito protagonisti di razzie anche nel territorio e divennero un pericolo costante. Attaccarono anche Camarina e Gela. Nel 282 a.C., approfittando di ciò, Finzia tiranno di Akragas distrusse definitivamente Gela e ne deportò la popolazione a Licata, che ricostruì in puro stile greco con mura, agorà e templi. Due anni dopo Siracusa attaccò e sconfisse Akragas, facendo scorrerie nel territorio ma questo provocò una nuova invasione cartaginese. È a questo punto che si inserisce nella storia di Sicilia Pirro il re dei Molossi dell'Epiro. Intervenuto nel 280 su richiesta di Taranto minacciata dai Romani, dopo averli sconfitti (con molte perdite però), rispose agli appelli che provenivano dalle città siciliane. Nel 278 a.C. sbarcò a Taormina, accolto dal tiranno Tindarione: armate 200 navi e un grosso esercito in due anni cacciò i Mamertini e ripulì l'isola dai Cartaginesi. Non riuscì nell'assedio di Lilibeo, la piazzaforte marittima dei punici, ma presto dovette ritornarsene in Italia.

Gerone II

Nel 269 a.C. Ierone II prese il potere a Siracusa e, fatto un accordo con i Cartaginesi, sferrò un nuovo attacco ai Mamertini; non poté tuttavia prendere Messina perché Cartagine, attenta a non far troppo crescere la potenza siracusana, non glielo consentì. Il passo successivo di Ierone fu quello di proclamarsi re e lo fu per 54 anni fino alla morte avvenuta nel 215 a.C. Stabilì la sua residenza nel palazzo fortificato di Ortigia e governò in maniera differente dai precedenti sovrani. Non proseguì nelle mire espansionistiche, né nelle avventure militari, ma curò specialmente le relazioni commerciali con i mercati mediterranei e l'Egitto. La massima estensione del suo regno abbracciava la Sicilia orientale da Taormina a Noto. La sua politica estera previde prima un'alleanza con Cartagine; ma presto si accorse che l'astro emergente era Roma così nel 263 a.C. firmò un trattato con quest'ultima e vi rimase fedele fino all'ultimo, risparmiando ai sudditi ed agli alleati il coinvolgimento nelle terribili conseguenze della Prima Guerra Punica. Infatti già da alcuni anni le truppe romane avevano inferto duri colpi alle città della Sicilia occidentale.

(VIII secolo a.C. - 241 a.C.)

Primi insediamenti

La dominazione fenicia in Sicilia iniziò prima dell'VIII secolo a.C., con la creazione di alcune colonie nella zona occidentale dell'isola, e finì il 241 a.C., con la vittoria dei Romani nella prima Guerra Punica. Il periodo in cui l'isola è stata governata da Cartagine è incluso in questa denominazione.

Primi insediamenti

I Fenici erano un popolo semita, che dall'odierno Libano stabilì un gran numero di colonie in tutto il mar Mediterraneo. La loro importanza fu offuscata da una delle colonie, Cartagine, fondata nell'814 a.C. nel nord dell'odierna Tunisia. Inizialmente, gli insediamenti, che erano di tipo commerciale(empori), erano diffusi su tutta la costa, ma con l'arrivo dei Greci si dovettero ritirare nella zona occidentale, dove fondarono vere e proprie città residenziali. I Fenici avevano fondato Mabbonath l'odierna Palermo, già abitata dai Sicani. Dello stesso periodo è la fondazione di Mtw cioè Mozia, che si ingrandì molto ospitando i Fenici espulsi dai Greci. Kfra (Solunto) fu il terzo polo delle colonie fenice in Sicilia, fondato intorno al 700 a.C.. Le tre città rivestirono un ruolo di primaria importanza nei commerci con le zone circostanti e validi porti amici per le navi degli alleati Elimi e Sicani.

Guerre greco-puniche

L'importanza di Cartagine in ambito mediterraneo iniziò a farsi sentire nel V secolo a.C.. Con la spedizione di Malco attorno al 550 a.C. la città estese la propria influenza sull'occidente siciliano. Nel 480 a.C. il generale Amilcare, forte di un esercito di 300.000 uomini (secondo quanto riferito da Diodoro Siculo) e dell'alleanza con i Persiani, sbarcò nei pressi di Palermo con per la prima della campagne siciliane. Fu però sconfitto nella battaglia di Imera: questa disfatta ridimensionò le mire cartaginesi sull'isola per 70 anni circa. In ogni caso, l'estremità occidentale isolana rimase sotto l'influenza cartaginese. Nel 410 a.C. le guerre ripresero con la seconda e terza campagna siciliana dei Cartaginesi. Questa volta i protagonisti furono Annibale Magone e poi Imilcone II per i Cartaginesi e Dionisio I di Siracusa in rappresentanza dei Greci di Sicilia. I Cartaginesi riuscirono a conquistare Selinunte, Imera, Agrigento, Gela e Camarina, per poi fermarsi alle porte di Siracusa, sconfitti dall'esercito aretuseo e dalla peste. Nel 315 a.C. iniziò la quarta campagna siciliana: Agatocle di Siracusa attaccò ed espugnò Messina, per poi passare alla devastazione della campagne di Agrigento entrando in pieno "epicrazia" cartaginese. Amilcare II guidò la controffensiva africana, e battè ad Ecnomo Agatocle e mettendo sotto assedio Siracusa. Agatocle assediò a sua volta Cartagine e riuscì nonostante la sconfitta a romprere l'assedio in Sicilia.

La guerra punica in Sicilia

I mercenari di Agatocle, chiamati Mamertini, rimasti senza lavoro, conquistarono Messina. Intervenne Siracusa e i Mamertini chiamarono in aiuto Cartagine che ne approfittò per insediarsi a Messina e mettere finalmente piede su una sponda dello stretto. Anche i Romani furono chiamati in aiuto dai Mamertini e, dopo lunga discussione, decisero di intervenire. L'attacco romano alla forze cartaginesi di Messina scatenò la Prima Guerra Punica, che durò dal 264 a.C. al 241 a.C.. Al termine del conflitto Cartagine fu costretta a lasciare definitivamente l'isola

Guerra Punica

Le Guerre puniche furono una serie di tre guerre combattute fra Roma e Cartagine tra il III e II secolo a.C., che si risolsero con la totale supremazia di Roma sul Mar Mediterraneo; supremazia diretta nella parte occidentale e controllo per mezzo di regni a sovranità limitata nell'Egeo e nel Mar Nero. Sono conosciute come puniche in quanto i romani chiamavano punici i cartaginesi. A sua volta il termine punico è una corruzione di fenicio, come Cartagine è una corruzione del fenicio Karth Hadash (città nuova). Le due città, quasi "coetanee" (814 a.C. Cartagine), (753 a.C. Roma), per lunghi secoli tennero un atteggiamento di reciproco rispetto anche se dai trattati stipulati nel corso del tempo, traspare una certa tendenza - probabilmente motivata - di Cartagine a sentirsi "superiore". Polibio ci informa di quattro trattati fra Roma e Cartagine: 509 a.C., 348 a.C., 306 a.C., 279 a.C. L'ultimo è addirittura un'alleanza (anche se non stretta) in funzione anti Pirro, re dell'Epiro, che imperversava prima nel sud Italia chiamato da Taranto contro i romani e poi in Sicilia chiamato da Siracusa contro i cartaginesi. La sconfitta di Pirro a Maleventum sancì il definitivo ingresso di Roma - che arrivò così a controllare saldamente tutta l'Italia peninsulare - nel novero delle grandi potenze del Mediterraneo. Proprio la precedente sconfitta di Pirro in Sicilia per opera dei romani segnò la divisione dell'isola in due settori: a ovest i punici, a est Siracusa. Quest'ultima città, per poter estendere il suo potere dovette rivolgersi contro i Mamertini di Messina che inviarono ambasciatori per chiedere aiuto a entrambe le città. Un'antica comunità di intenti, basata sulla simmetria degli interessi (terrestri per Roma, navali per Cartagine) cessò all'improvviso. Per 120 anni la guerra imperversò, gradualmente estendendosi a tutto il Mediterraneo. Fino alla totale distruzione di uno dei contendenti: Cartagine.

Prima guerra punica

La Prima guerra punica (264 a.C. - 241 a.C.) fu principalmente una guerra navale. Le richieste di soccorso dei Mamertini contro Siracusa raggiunsero Roma e Cartagine. Roma, impegnata nella pacificazione del territorio sannita e nell'inizio di espansione nella Pianura Padana era riluttante a impegnarsi in Sicilia. Cartagine inviò subito una squadra navale. La conquista di Messina gettava segnali favorevoli nella secolare lotta con Siracusa; Cartagine poneva finalmente piede anche nel settore orientale dell'isola. Probabilmente vedere Cartagine a poche miglia dalle coste del Bruttium appena conquistato dovette creare qualche apprensione nel Senato romano che acconsentì a inviare soccorsi a Messina. Questo andava contro il trattato del 279 a.C. che vietava gli interventi di Roma in Sicilia. Cartagine dichiarò guerra. Visto il pericolo, si alleò con la sua nemica storica, Siracusa, contro Roma ed i Mamertini. La maggior parte della Prima guerra punica, comprese le battaglie più decisive, fu combattuta in mare, uno spazio ben noto alle flotte cartaginesi. Però entrambi i contendenti dovettero investire pesantemente nell'allestimento delle flotte e questo diede fondo alle finanze pubbliche sia di Roma che di Cartagine. All'inizio della guerra Roma non aveva nessuna esperienza di guerra navale. Le sue legioni erano vittoriose da secoli nelle terre italiche ma non esisteva una Marina. La prima grande flotta fu costruita dopo la battaglia di Agrigentum del 261 a.C. Ma Roma mancava della tecnologia navale e quindi dovette costruire una flotta basandosi sulle triremi e quinquiremi (navi che avevano ordini di due o tre remi e ciascun remo era manovrato da più rematori) cartaginesi catturate. Per compensare la mancanza di esperienza in battaglie con le navi, Roma equipaggiò le sue con uno speciale congegno d'abbordaggio: il corvo che agganciava la nave nemica e permetteva alla fanteria, trasportata, di combattere come sapeva fare. In almeno tre occasioni 255 a.C., 253 a.C. e 249 a.C. intere flotte furono distrutte dal maltempo. Non è certo che il peso dei corvi sulle prode delle navi sian stato il maggior responsabile dei disastri
Tre battaglie terrestri di larga scala furono combattute durante questa guerra. Nel 262 a.C. Roma assediò Agrigento in un'operazione che coinvolse entrambi gli eserciti consolari (quattro legioni). Giunsero rinforzi cartaginesi guidati da Annone. Dopo alcune schermaglie si venne a una vera battaglia che fu vinta dai romani. Agrigento cadde. La seconda operazione terrestre fu quella di Marco Attilio Regolo, quando, fra il 256 a.C. e il 255 a.C. Roma portò la guerra in Africa. Cartagine venne sconfitta nella Battaglia di Capo Ecnomo da una grande flotta romana appositamente approntata e le legioni di Attilio Regolo sbarcarono in Africa. All'inizio Regolo vinse la battaglia di Adys. Cartagine chiese la pace. I negoziati fallirono e Cartagine, assunto il mercenario spartano Santippo, riuscì a fermare l'avanzate romana nella battaglia di Tunisi.
La guerra fu decisa nella battaglia navale delle Egadi (10 marzo 241 a.C.) vinta dalla flotta romana sotto la guida del console Gaio Lutazio Catulo. Parte del relitto di una nave affondata in questa guerra è conservata nel Museo Archeologico "Baglio Anselmi" di Marsala.

Dal 241 al 218 a.C

Nell'intervallo di tempo fra la prima e la seconda guerra punica, Cartagine dovette subire e reprimere una rivolta delle truppe mercenarie che aveva impiegato. La rivolta era dovuta all'impossibilità dei punici di pagare le truppe stesse alla fine del conflitto. Dopo tre anni di battaglie i mercenari furono sgominati e Cartagine poté riprendere il suo percorso per riconquistare il vigore economico precedente. Dopo acerrime lotte politiche fra le due principali fazioni cittadine, Amilcare Barca, padre di Annibale e capostipite dei cosiddetti Barcidi partì per la Spagna con un piccolo esercito di mercenari e cittadini punici. I Fenici infatti, dopo aver perso le isole, cercavano una riscossa nel Mediterraneo, ed una fonte di ricchezza per pagare le forti indennità di guerra dovute a Roma. Non essendo aiutato dalla città, Amilcare dovette marciare per tutta la costa del Nordafrica e buona parte della costa spagnola. Sottomise molte popolazioni iberiche e alla sua morte fu sostituito dal genero Asdrubale che consolidò le conquiste fatte, fondò la città di Chartago Nova (oggi Cartagena) e stipulò un trattato con Roma. Il trattato poneva i limiti di espansione punica in Iberia a sud del fiume Ebro. Quando anche Asdrubale fu ucciso l'esercito scelse come capo Annibale, ancora ventisettenne. Cartagine accettò la designazione. Dopo due anni Annibale decise di portare la guerra in Italia, scatenando la seconda guerra punica.

Seconda guerra punica

La Seconda guerra punica (218 a.C. - 202 a.C.) consistette essenzialmente in una serie di battaglie terrestri. Spiccano le figure di Annibale e Publio Cornelio Scipione detto successivamente per le vittorie avute in Africa "l'Africano". Il casus belli scelto da Annibale fu la sfortunata Sagunto. Alleata di Roma ma posta a sud dell'Ebro, cioè entro i "confini" punici, la città fu assalita, assediata e distrutta (La città di Sagunto aveva chiesto l'intervento di Roma ma il Senato era diviso sull'intervento tanto che è rimasta celebre la frase "Mentre a Roma discutono Sagunto cade"). Roma chiese a Cartagine di sconfessare Annibale. Cartagine rifiutò e accettò la dichiarazione di guerra. Annibale partì dalla Spagna con un esercito di circa 50.000 uomini, 6.000 cavalieri e 37 elefanti.
Attraversate le Alpi, presumibilmente al passo del Moncenisio o del Monginevro, Annibale giunse nella Pianura padana con più o meno metà delle forze. Nell'ottica di portare dalla sua parte le tribù galliche in lotta con Roma, combatté e sconfisse i Taurini, avversari degli Insubri che gli si allearono assieme ai Boi. Con magistrale uso della cavalleria sconfisse le forze romane in due importanti battaglie sul Ticino e sulla Trebbia. L'anno successivo attraversò l'Appennino e batté seccamente le legioni di Roma nella battaglia del Lago Trasimeno. Sapendo di non poter assediare Roma prima di aver raccolto attorno a sé le popolazioni dell'Italia centrale e meridionale si diresse verso la Puglia dove, a Canne, inferse una tremenda sconfitta all'esercito romano. Ancora una volta non osò attaccare Roma che già si aspettava l'assedio e si limitò a operare nelle regioni del sud Italia. Roma, lentamente si riprese e adottando nuovamente la tattica del dittatore Quinto Fabio Massimo, che poi prenderà il soprannome di "cunctator" (temporeggiatore) per anni e con alterne fortune, combatté il generale cartaginese restringendo sempre di più il territorio della sua azione riconquistando man mano le città che Annibale conquistava, non appena le condizioni militari o sociali lo consentivano. Così Capua, Taranto, per citare le più importanti, passarono di mano da Roma ad Annibale e di nuovo a Roma. Nel frattempo Roma portava la guerra in Spagna, prima con i fratelli Publio (padre dell'Africano) e Gneo Cornelio Scipione, e poi dopo la loro morte con Publio Scipione (futuro Africano) che attaccarono Asdrubale e Magone (fratelli di Annibale). La Spagna fu conquistata e Asdrubale venne in Italia cercando di portare rinforzi al fratello. Al fiume Metauro fu sconfitto e ucciso. Magone provò a muovere le tribù galliche della Pianura Padana ma fu sconfitto e ferito. Richiamato in patria, morì per le ferite durante la traversata. In maniera non determinante fu coinvolto anche il re Filippo V di Macedonia che si alleò con Annibale e provò a combattere i romani i quali si stavano espandendo nell'Illiria e quindi si avvicinavano ai suoi territori. Roma mosse la sua diplomazia e le sue legioni riuscendo a fermare i Macedoni senza grandi sforzi e aiutata dal re di Pergamo. Altre figure importanti della seconda guerra punica sono i re numidi Massinissa e Siface. Massinissa entrò in guerra come alleato di Annibale e la terminò come alleato di Scipione. Specularmente, Siface era alleato di Roma e finì la guerra come alleato di Cartagine.
Senza rifornimenti e rinforzi da Cartagine e senza riuscire a far sollevare le popolazioni del centro Italia contro Roma, Annibale si ritrovò praticamente assediato sui monti della Calabria dove, in seguito, gli giunse l'ordine di Cartagine di tornare in Africa per portare aiuto contro Publio Cornelio Scipione (Africano). Contrastando il volere del Senato, guidato da Quinto Fabio Massimo che riteneva prioritario estromettere Annibale dalla Penisola, Scipione, in qualità di proconsole della Sicilia e aiutato dalle città italiche, partì per l'Africa attaccando direttamente Cartagine. La città punica si vide costretta a richiamare Annibale che rientrò in patria dopo 34 anni di assenza. Nel 202 a.C. a Zama, Scipione volse contro Annibale la sua stessa strategia e lo sconfisse, determinando la fine della Seconda guerra punica.

Dal 202 al 149 a.C.

Dopo l'avventura di Annibale, Cartagine aveva dovuto cedere anche le redditizie conquiste in Spagna, stava inoltre pagando puntualmente le nuove indennità per la seconda sconfitta (200 talenti d'argento annui per 50 anni). Addirittura prestò aiuto militare alle forze di Roma nelle guerre contro Antioco III, Filippo V e Perseo. La relativa decadenza dello stato era mitigata da un riprendersi del commercio e un nuovo impulso dato all'agricoltura e in particolare alle coltivazioni di ulivo e vite.
Roma, però, non poteva dimenticare il pesante carico di costi economici, umani e psicologici causati dalla precedente guerra. Lo sforzo bellico fu grandioso in termini di risorse umane. Si può calcolare che con le forze degli alleati, Roma dovesse mantenere oltre 200.000 uomini a combattere cui bisogna aggiungere le forze navali. Ogni combattente era sottratto alle campagne e all'agricoltura. Si può quindi comprendere perché Roma fosse ben attenta a far sì che Cartagine non rialzasse la testa. E a far ricordare i romani pensava Catone il Censore. Nondimeno, la situazione poteva mantenersi in uno stato di precario equilibrio se non fosse intervenuto Massinissa.
Questi approfittò degli accordi di pace del 201 a.C. che vietavano a Cartagine persino l'autodifesa senza il consenso di Roma, per sottrarre territori di confine anche con la forza. Nel 193 a.C. Massinissa occupò Emporia e il Senato romano inviò a Cartagine una delegazione; nel 174 a.C. occupò Tisca e Roma invio Catone alla guida di un'altra commissione; ancora, il re numida occupò Oroscopa. Nel 150 a.C. l'esasperata Cartagine, rompendo i patti, apprestò un esercito di 50.000 uomini cercando di riconquistare Oroscopa ma fu sconfitta. Il rischio per Roma era che Cartagine, troppo indebolita, cadesse preda della Numidia. Si sarebbe formato uno stato ricco, esteso dall'Atlantico all'Egitto e militarmente forte. La rottura dei patti fornì Roma di un pretesto perfetto per poter intervenire e dichiarò guerra all'eterna rivale. Era il 149 a.C. e iniziava la Terza guerra punica.

Terza guerra punica (149 a.C. - 146 a.C.)

Non appena si seppe che i romani erano partiti con un esercito di 80.000 uomini e 4.000 cavalieri Cartagine capitolò, inviando 300 ostaggi scelti fra gli adolescenti della nobiltà punica. L'esercito romano sbarcò vicino a Utica, che si arrese. I consoli ricevettero gli ambasciatori di Cartagine che dovettero accettare le condizioni poste: Cartagine consegnò armature, catapulte e altro materiale bellico. Resi inermi i cartaginesi, Censorino disse che la città doveva essere distrutta e ricostruita 15 km all'interno. Il popolo cartaginese si ribellò; furono uccisi tutti gli italici presenti in città, furono liberati gli schiavi per avere aiuto nella difesa, furono richiamati Asdrubale e altri esuli, fu chiesta una moratoria di 30 giorni per inviare una delegazione a Roma. In questi 30 giorni, si ebbe una frenetica corsa al riarmo. I cartaginesi riuscirono a produrre ogni giorno 300 spade, 500 lance, 150 scudi e 1.000 proiettili per le ricostruite catapulte. Le donne offrirono i loro capelli per fabbricare corde per gli archi. Quando i romani arrivarono alle mura di Cartagine trovarono un intero popolo stretto a difesa della sua città. Fu posto l'assedio. Cartagine era estremamente ben difesa. La sosta aveva dato ad Asdrubale, posto a capo dell'esercito, la possibilità di raccogliere circa 50.000 uomini ben armati e l'assedio si protrasse. Nel 148 a.C. i nuovi consoli furono inviati in Africa ma si rivelarono ancora più incapaci dei predecessori. Gli insuccessi romani resero audaci i cartaginesi, Asdrubale prese il potere con un colpo di stato e ordinò di esporre sulle mura i prigionieri orrendamente mutilati. I romani, inaspriti, non avrebbero concesso mercé. Nel 147 a.C. Publio Cornelio Scipione Emiliano venne nominato console, avendo come collega Caio Livio Druso. Asdrubale che difendeva il porto con 7.000 uomini, fu attaccato di notte e costretto a riparare a Birsa.Scipione bloccò il porto da cui arrivavano i rifornimenti per gli assediati. Questi scavarono un tunnel-canale e riuscirono a costruire cinquanta navi ma Scipione distrusse la flotta e il tunnel-canale fu chiuso. Nel frattempo Nefari fu attaccata da truppe romane e cadde; questo portò la resa delle altre città. I romani si poterono concentrare su Cartagine. L'agonia della città si protrasse per tutto l'inverno senza viveri e attaccata da una pestilenza. Scipione non forzò l'attacco che venne lanciato solo nel 146 a.C. I sopravvissuti per quindici giorni impegnarono i romani in una disperata battaglia per le strade della città. Ma l'esito era scontato. Gli ultimi soldati si rinchiusero nel tempio di Eshmun altri otto giorni. Scipione abbandonò la città al saccheggio dei suoi soldati. Cartagine fu rasa al suolo, bruciata, le mura abbattute, il porto distrutto. Venne sparso del sale[1] a dimostrare che quel luogo era maledetto[senza fonte], e quindi inabitabile ed incoltivabile. La terza guerra punica era terminata.

(VIII secolo a.C. - 241 a.C.)

La dominazione romana in Sicilia iniziò il 10 marzo 241 a.C. (con la vittoria di Torquato Attico e Catulo sulle truppe cartaginesi di Annone nella battaglia delle isole Egadi) e si concluse nel 440, con la spedizione del vandalo Genserico, che conquistò l'isola. Roma cominciò a intervenire in Sicilia in occasione degli scontri tra i Mamertini di Messina e i Siracusani, durante la prima guerra punica. Alla fine della guerra Roma aveva occupato gran parte dell'isola, eccetto Siracusa che rimase indipendente. Il tiranno aretuseo, Geronimo, durante la seconda guerra punica, cambiando le alleanze, attirò nuove truppe romane alle porte di Siracusa. Anche i cartaginesi mandarono truppe nell'isola e fra Palermo, Siracusa, Agrigento e Enna, Roma e Cartagine si affrontarono direttamente in battaglie e assedi alternandosi a tratti nel controllo dell'isola. La conclusione di questa parte della guerra avvenne con la presa di Siracusa da parte delle forze di Marco Claudio Marcello, con la famosa morte di Archimede che aveva aiutato la sua città con le sue macchine e con i suoi specchi ustori. Siracusa poi - non più regno alleato - verrà inglobata nella Provincia di Sicilia di cui diventerà capitale. La Sicilia divenne così la prima provincia territoriale di Roma e una delle più prospere e tranquille, sebbene la sua storia sia stata turbata da due gravi episodi di rivolta servile, una in Sicilia orientale dal 140 al 132 a.C., capeggiata da Euno e soffocata dal console Publio Rupilio; l'altra in Sicilia occidentale dal 101 al 97 a.C., capeggiata da Salvio Trifone e soffocata da Manio Aquilio: entrambe sono state trattate da Diodoro Siculo, con dovizia di particolari che consentono, fra l'altro, di avere un'idea della massiccia presenza di schiavi in Sicilia (200.000 circa), del loro sfruttamento e, conseguentemente, delle attività economiche ivi praticate. Il governo isolano fu riorganizzato sotto la guida di un pretore, coadiuvato da due questori, uno a Siracusa e l'altro a Lilibeo e da un consiglio provinciale che però non aveva poteri effettivi. Durante il governo repubblicano romano, tutte le città godevano di una certa autonomia ed emettevano monete di piccolo taglio, ma si diversificavano tra loro per il tipo di organizzazione amministrativa. Ad esempio Messina Tauromenio e Netum (= Noto) erano civitates foederatae, in quanto già alleate di Roma, Segesta e Palermo erano liberae ac immunes; altre erano civitates decumanae, cioè pagavano la decima secondo il sistema già in uso ai tempi di Gerone II fornendo così a Roma un tributo annuo di circa 2 milioni di moggi di grano (un quinto del fabbisogno dell'Urbe). Altre città ancora erano le civitates censoriae, comunità la cui terra era stata confiscata e resa ager publicus e per la quale dovevano pagare un affitto, oltre alla decima. L'accordo fra i triumviri Antonio, Ottaviano e Lepido riconosce nel 39 a.C. a Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno, la giurisdizione sulla Sicilia, oltre che su Sardegna e Corsica. Più tardi, però, le guerre civili si concludono con la vittoria definitiva di Ottaviano e Sesto Pompeo viene sconfitto da Agrippa.

Periodo imperiale

Passate le guerre civili e consolidatosi il regime augusteo, la Sicilia tornò a prosperare come prima, mentre cultura greca e latina continuavano a coabitare. Augusto sostituì la vecchia decima con una nuova imposta fissa e cambiò l'organizzazione amministrativa delle comunità locali, ancora legata ai vecchi schemi organizzativi greci, concedendo la cittadinanza romana a Messina, Centuripe e alcune altre città, fondando colonie di veterani in varie località della Sicilia (Siracusa, Tauromenio, Palermo, Catania, Tindari e Termini), e creando municipi latini, dei quali alcuni soggetti a tassazione alcuni altri esenti.

Economia

In seguito alle guerre puniche si erano avuti grandi accaparramenti di terre e ciò portò alla formazione di grandi latifondi lavorati da manodopera servile, le cui cattive condizioni di lavoro portarono alle rivolte. In questi latifondi fu incoraggiata soprattutto la coltura del frumento e ciò fece dell'isola uno dei granai di Roma e una delle province romane più ricche. Ciò dette impulso anche ad altre attività nell'isola, principalmente l'industria navale che sfruttava le dense foreste isolane, e il commercio, soprattutto con Gallia, Spagna e Africa. Con l'avvento del regime imperiale il latifondismo rimase la principale forma di conduzione fondiaria, ma nonostante il declino della coltura cerearicola continuarono a fiorire villaggi e piccoli possedimenti e non si ebbe alcuna diminuzione della popolazione. La situazione economica dell'isola cominciò a decadere durante il governo degli Antonini e fu compromessa con le invasioni barbariche e il successivo dominio bizantino.

(440- 493)


La dominazione vandala della Sicilia iniziò nel 440, con la conquista da parte del re Genserico, e si concluse tra il 484 e il 496, sotto il regno di Guntamundo, che perse l'ultima città vandala nell'isola, Lilibeo. Genserico divenne re nel 428, alla morte del fratello Gunderico. Dopo aver conquistato tutto il Nordafrica, nel 440 si unì ai berberi. A Cartagine, la sua base, mise a punto una grande flotta con la quale, nello stesso anno, sbarcò in Sicilia. I vandali iniziano a razziare l'isola, distruggendo Palermo e impedendo anche alle navi bizantine di Teodosio II di approdare per provare a combattere i barbari. Nel 442 ciò che rimaneva dell'Impero romano d'Occidente riconobbe le conquiste vandale e fu così creato uno stato vero e proprio. Nel 476 Odoacre, re degli eruli, iniziò una sanguinosa guerra contro i vandali, riscattando però quasi tutta la Sicilia con un tributo. L'unica roccaforte vandala rimase Lilibeo. Sotto Gutemondo, nipote di Genserico, tra il 484 e il 496, la Sicilia fu conquistata interamente dagli ostrogoti.

(493-555)

La dominazione Erulo-ostrogota della Sicilia iniziò nel 493, con l'uccisione di Odoacre da parte di Teodorico il Grande, e si concluse da ultimo nel 555, con la definitiva conquista dei bizantini ad opera di Narsete. Se si include anche il dominio degli eruli, si risale al 476, quando Genserico cedette l'isola in cambio di un tributo al re Odoacre. Prima dominazione ostrogota Nel 476 Genserico re dei vandali, logorato dalle guerre contro Odoacre, decise di cedere l'isola per un tributo. Rimase comunque nelle mani vandale la sola città di Lilibeo, che sarebbe stata sottratta poi al re Guntamundo. Nel 493 Odoacre fu ucciso da Teodorico il Grande, re degli ostrogoti, che prese così il suo posto nel governo dell'Italia. Sotto il regno di Teodorico fu l'apice del potere ostrogoto nella penisola, anche perché di lì a poco l'Impero Bizantino avrebbe iniziato una serie lunghissima di guerre (guerra gotica (535-553)) per riconquistarla. Nel 535 Giustiniano I di Bisanzio ordinò a Belisario di attaccare gli ostrogoti. Il generale riuscì con solo 15.000 soldati a conquistare rapidamente la Sicilia e penetrare nell'Italia penisulare.

Prima dominazione ostrogota

Nel 476 Genserico re dei vandali, logorato dalle guerre contro Odoacre, decise di cedere l'isola per un tributo. Rimase comunque nelle mani vandale la sola città di Lilibeo, che sarebbe stata sottratta poi al re Guntamundo. Nel 493 Odoacre fu ucciso da Teodorico il Grande, re degli ostrogoti, che prese così il suo posto nel governo dell'Italia. Sotto il regno di Teodorico fu l'apice del potere ostrogoto nella penisola, anche perché di lì a poco l'Impero Bizantino avrebbe iniziato una serie lunghissima di guerre (guerra gotica (535-553)) per riconquistarla. Nel 535 Giustiniano I di Bisanzio ordinò a Belisario di attaccare gli ostrogoti. Il generale riuscì con solo 15.000 soldati a conquistare rapidamente la Sicilia e penetrare nell'Italia penisulare.

Seconda dominazione ostrogota

Fino al 549 l'isola fu dominata dai bizantini, ma la guerra contro i bulgari distolse l'attenzione dalle guerre in Italia e gli ostrogoti riconquistarono i territori persi. Totila, con l'assedio di Roma nell'autunno del 549, riconquistò l'Italia. Il suo dominio durò molto poco. Giustiniano mandò in Italia l'eunuco Narsete, nuovo generale delle sue truppe, che inflisse varie sconfitte anche grazie ad un ingresso in Italia a sorpresa (dal nord). Nel 552, tra Gualdo Tadino e Gubbio, gli eserciti di Totila e Narsete diedero vita ad una tremenda battaglia. Totila morì sul campo. Sostituito da Teia, il suo regno durò solo il tempo di uccidere tutti gli ostaggi per poi essere definitivamente sconfitto dai bizantini.

(535-1043)

Conquista Bizantina

La Sicilia fu conquistata dai barbari di Odoacre dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente. Nel 468 sotto il re Genserico, i vandali dell'Africa conquistano la Sicilia e la Sardegna. I vandali restituirono l'isola a Odoacre dietro compenso di un grosso tributo, ma più tardi re Teodorico non mantenne l'impegno, pur rifiutandosi di restituire l'isola ai vandali. Nel 535, durante la guerra gotica, l'isola fu occupata da Belisario e fu annessa all'Impero bizantino.

Primo tentativo di invasione araba

La disgregazione dell'Impero bizantino e la sua debolezza si facevano pesantemente sentire in Sicilia, alimentando un certo malcontento, in un'area che da sempre, sia politicamente che culturalmente, si sentiva più vicina ed attratta da Roma e da quello che fu l'Impero d'Occidente piuttosto che da Costantinopoli e dall'Impero bizantino. Tra l'803 e l'820 l'efficienza bizantina nel quadrante centrale del Mediterraneo cominciò a decrescere vistosamente, in concomitanza con il governo dell'Imperatrice Irene di Bisanzio mentre la vicenda di Tommaso lo Slavo contribuiva ad accrescere lo stato di debolezza dell'Impero. Il turmarca della flotta bizantina Eufemio di Messina, che s'era impadronito del potere in Sicilia con l'aiuto di vari nobili, chiese l'aiuto degli Arabi nell' 825 per tutelare il suo dominio sull'isola. I Bizantini reagirono duramente sotto la guida di Fotino e Eufemio, battuto a Siracusa, scappò in Ifriqiya. Lì trovò rifugio presso l'emiro aghlabide di Qayrawan, Ziyadat Allah I, cui chiese aiuti per realizzare uno sbarco in Sicilia e cacciare gli odiati Bizantini. Gli Aghlabidi erano allora squassati da un acuto contrasto che contrapponeva la componente indigena berbera, islamizzata in seguito alle prime conquiste islamiche del VII secolo e condotta da Mansur al-Tunbudhi, all'esercito arabo che era giunto in Ifriqiya (all'incirca l'attuale Tunisia) all'epoca dell'istituzione dell'Emirato, per volere del califfo Harun al-Rashid col primo Emiro Ibrahim ibn al-Aghlab. I musulmani, che forse avevano già progettato un'invasione delle Sicilia, prepararono una flotta di 70 navi, chiamando al jihad marittimo il maggior numero di volontari, ufficialmente per assolvere a un obbligo morale ma di fatto per allontanare dall'Ifriqiya il maggior numero possibile di sudditi facinorosi che non avevano mancato di creare gravi tensioni, tanto nelle fila della componente araba quanto all'interno dei ranghi berberi, con grave nocumento per la popolazione civile.

Conquista araba

L'invasione ebbe inizio il 17 giugno dell' 827 e lo stuolo in gran parte berbero (ma alla guida di elementi arabi o persiani), fu affidato al qadi di Qayrawan, Asad b. al-Furat, grande giurisperito malikita autore della notissima Asadiyya, di origine persiana del Khorasan. Lo sbarco avvenne nei pressi di Capo Granitola, vicino Mazara del Vallo e fu occupata Marsala (in arabo Marsa ‘Ali, il porto di ‘Ali o Marsa Allah, il porto di Dio) ed entrambi i centri furono fortificati e usati come testa di ponte e base di attracco per le navi. La spedizione che voleva con ogni probabilità conquistare solo le ricchezze dell'isola, non s'illuse di poter superare le difese di Siracusa, la capitale bizantina dell'isola, ma la sostanziale debolezza bizantina, da poco uscita da un duro conflitto contro l’usurpatore Tommaso lo Slavo, fece prospettare ad Asad la concreta possibilità che l'iniziale intento strategico potesse essere facilmente mutato in una spedizione di vera e propria conquista. Superato in uno scontro dall'indeterminata ampiezza un non meglio identificato Balatas (Curopalates ?), messo in fuga presso Corleone, e superata quindi alla meglio nell’ 828 un’epidemia probabilmente di colera che portò alla morte per dissenteria lo stesso Asad (sostituito da Muhammad b. Abi l-Jawari per volere degli stessi soldati (Amari, 1933, I:407), i musulmani ottennero rinforzi nell’830, in parte dall’Ifriqiya (allora impegnata a respingere l'attacco del duca di Lucca, Bonifacio II) e in maggior parte da al-Andalus, mentre in Sicilia giunse un gruppo di mercenari al comando del berbero Asbagh b. Wakil, detto Farghalus. Fu così possibile ai musulmani - che già avevano preso Girgenti (oggi Agrigento, rimasta sempre a stragrande maggioranza berbera) - espugnare nell’agosto-settembre dell'831 Palermo, eletta capitale della Sicilia islamica ( Siqilliyya ), quindi Messina, Modica (845) e Ragusa, mentre Castrogiovanni (oggi Enna) fu presa solo nell’859. Resisteva Siracusa, sede dello strategos da cui dipendevano tanto il drungariato di Malta quanto le arcontie (ducati) di Calabria, di Otranto e, almeno teoricamente, di Napoli. Le conquiste di Giorgio Maniace in Sicilia in rosso tratteggiate.Fu necessario più d’un decennio per piegare la resistenza degli abitanti del solo Val di Mazara e ancor più per impadronirsi tra l’841 e l’859 del Val di Noto e del Val Dèmone. Siracusa, superato il blocco impostole nell’872-3 da Khafaja b. Sufyan b. Sawadan, cadde il 21 maggio 878, a oltre mezzo secolo dal primo sbarco, al termine d’un implacabile assedio che si concluse col massacro di 5.000 abitanti e con la schiavitù dei sopravvissuti, riscattati solo molti anni più tardi. L'ultima roccaforte importante della resistenza bizantina a cedere fu Tauromenium (Taormina) il 1° agosto del 902 sotto gli attacchi dell'emiro Ibrahim b. Ahmad. L'ultimo lembo di terra bizantino a resistere ai musulmani fu Rometta che capitolò solo nel 963. Ibrahim II, dismessi i panni da Emiro aghlabide per il veto opposto alla sua nomina dal califfo abbaside di Baghdad, nella sua volontà di prosecuzione del jihad, tentò di risalire l'Italia per poi giungere, si disse con grande fantasia, fino a Costantinopoli. Passò pertanto lo Stretto e percorse in direzione nord la Calabria. Non trovò particolare resistenza ma la sua marcia si arrestò nei dintorni di Cosenza che forse fu la prima città ad opporre una certa resistenza all'invasione. Tuttavia l'arresto avvenne probabilmente più per il disordine con cui le operazioni militari furono svolte e per la carenza di conduzione militare e di concreti risultati. Inoltre Ibrahim, colto da dissenteria, spirò in breve tempo e le sue truppe, al limite dello sbando, si ritirarono. Così si concluse la velleitaria conquista della "Terra grande" (al-ar? al-kabira).

Tentativo di riconquista bizantina

Si sa che Basilio II di Bisanzio nel 1025 aveva progettato la riconquista della Sicilia. Ma non poté iniziarla perché morì nello stesso anno. Il piano di Basilio fu dimenticato per alcuni anni, ma poi l'imperatore Michele IV di Bisanzio, ritrovando le carte del progetto di Basilio, e appena le vide ne fu entusiasta, e volle iniziare subito questa campagna di riconquista, che venne affidata al grande generale Giorgio Maniace. Durante il XI secolo nella Sicilia musulmana si ebbe una profonda crisi politica che oppose l’imam fatimida ai governatori Kalbidi, che alla fine vennero vinti e furono allotanati. Dello scontro approfittarono i bizantini che richiamati dai Kalbiti nel 1038 intrapresero un effimero tentativo di riconquista dell'isola. Alla testa della spedizione bizantina vi era Stefano, fratello dell'imperatore Michele IV il Paflagone, mentre il comando militare delle truppe era affidato al generale Maniace. Le truppe erano formate inoltre da numerosi lombardi esuli comandati da Arduino e da una compagnia di normanni comandati da Guglielmo Braccio di Ferro. La spedizione usò come testa di ponte la base di Reggio Calabria e quindi varcato lo stretto, occupò prima Messina e quindi si diresse verso l'antica capitale dell'isola Siracusa. Maniace fu l'unico condottiero che riuscì, prima dei Normanni e seppur temporaneamente (sino probabilmente al 1043), a liberare la città aretusea dai musulmani. A testimonianza di quella impresa mandò le reliquie di Santa Lucia a Costantinopoli e fece costruire in città una fortilizio che ancora oggi, pur se ampliato porta il nome di Castello di Maniace. Anche la trafugazione delle reliquie di santa Agata avvenuta durante l'XI secolo avvenne probabilmente per mano delle stessa spedizione. Nel 1040 tra Randazzo e Troina sconfisse le truppe musulmane di Abdallah. Nei pressi del luogo della battaglia, venne fondato il monastero di Santa Maria di Maniace. L'antico cenobio si trova oggi vicino il paese di Maniace in provincia di Catania, anch'esso battezzato così in un secondo tempo in onore del generale bizantino. Abdallah, pur sconfitto riuscì a mettersi in salvo, per fortuna o forse per un errore di strategia di Stefano che si rifiutò d'affrontarlo. Tuttavia una serie di eventi funesti, dissidi ed una rivolta di Arduino - legata a contrasti riguardanti la ricompensa - metteranno in crisi la spedizione che dovrà abbandonare la Sicilia e ritirarsi sino in Puglia. Nel 1043 alla testa dell'esercito Giorgio Maniace represse la rivolta, costituita da normanni e lombardi e grazie al buon compimento della battaglia, i suoi soldati lo nominarono Imperatore Bizantino, al posto di Costantino IX.

Conquista della Sicilia

Il casus belli gli fu offerto (secondo uno schema già collaudato contro i Vandali di Gelimero in Africa) dall'esilio e successivo assassinio nel 535 di Amalasunta, erede di Teodorico, i cui ambasciatori avevano firmato un patto con Giustiniano secondo il quale le truppe imperiali potevano usare le basi sicule nella loro guerra contro i Vandali. Il generale incaricato di dirigere le operazioni fu Belisario, che da poco aveva combattuto con successo contro i Vandali. Alla testa di 7.200 cavalieri e di 3.000 fanti, Belisario, ricevuta la carica di console, salpò per l’Italia.
Il generale bizantino conquistò in breve tutta la Sicilia. In particolare la conquista di Palermo venne raggiunta grazie a un'astuzia: le scialuppe vennero issate con funi e carrucole fino alla cima degli alberi delle navi, e furono riempite da arcieri, che da quella posizione dominavano le mura della città. Giunto a Siracusa, Belisario distribuì trionfante medaglie d’oro alla plebe, che essendo scontenta della dominazione gota, aveva accolto Belisario da liberatore. Belisario svernò a Siracusa, nel palazzo degli antichi re della città. Nel frattempo il Re dei Goti Teodato, temendo di fare la fine di Gelimero, accettò di cedere all’Impero d’Oriente la Sicilia e sembrava addirittura disposto a cedere l’Italia intera ai Bizantini in cambio di una pensione di 1.200 libbre d'oro. Tuttavia la notizia della sconfitta inflitta ai Bizantini in Dalmazia gli fece cambiare idea, e si rimangiò la parola data, respingendo gli ambasciatori bizantini a lui inviati per concludere la pace. La guerra di conseguenza continuò.

Presa di Napoli e Roma (536-537)

Belisario, dopo aver sottomesso la Sicilia, si preparava a invadere anche la penisola italiana; salpando da Messina, fece rotta verso Reggio Calabria, dove era pronto ad attenderlo un esercito goto sotto il comando di Ebermore, il genero di Teodato; tuttavia Ebermore non oppose resistenza e disertò. Belisario si diresse poi verso Napoli, non trovando quasi alcuna opposizione: gli abitanti, scontenti del malgoverno goto, si arresero facilmente ai Bizantini, adducendo come pretesto il cattivo stato delle mura. Durante l’assedio di Napoli, Belisario diede udienza ai deputati del popolo, che lo esortarono a cercare il re goto, vincerlo, e dopo rivendicare come propria Napoli e le altre città, invece di perdere tempo ad assediarla. Belisario rispose: « Quando tratto con i miei nemici sono più assuefatto a dare che a ricevere consiglio: tengo in una mano l’inevitabile rovina di Napoli e nell’altra la sua pace, e la libertà, come ora gode la Sicilia. ». (Belisario). Ma la città resistette e dopo 20 giorni di assedio Belisario sembrava quasi pronto a rinunciare alla presa di Napoli; ma un isaurico facente parte dell’esercito bizantino riferì al suo generale l’esistenza di un acquedotto da cui si poteva aprire un passaggio per entrare in città; la notte dopo dunque 400 soldati bizantini entrarono nel cuore della città attraverso l’acquedotto e riuscirono nell’impresa di aprire le porte ai loro compagni. Fu allora che avvenne il saccheggio e la presa della città. Il saccheggio fu però limitato per volontà di Belisario: egli disse ai suoi di fare incetta di oro e argento, premio per il loro valore, ma di risparmiare gli abitanti, che erano cristiani come loro. Nel frattempo Teodato, a causa della sua passività, venne ucciso e gli succedette Vitige. Belisario, dopo aver fatto fortificare Cuma e Napoli, si diresse verso Roma dove, nel 536, venne acclamato come un liberatore, e gli furono aperte le porte nonostante la presenza delle guarnigioni di Ostrogoti in città. Il Capitano della guarnigione gota, Leutari, venne inviato a Costantinopoli per consegnare le chiavi della Città Eterna a Giustiniano. La liberazione di Roma dai barbari venne festeggiata con i Saturnalia, e Belisario decise di marciare oltre sottomettendo anche città come Narni, Perugia e Spoleto.

Assedio di Roma (537-538)

Ma Vitige non era disposto ad arrendersi e preparava la riconquista di Roma. A due miglia da Roma, Bizantini e Goti combatterono: alla fine prevalsero i Bizantini, che uccisero più di mille Goti e li costrinsero alla fuga. Si diffuse il timore, poi rivelatosi falso, che Belisario fosse morto in battaglia: per fortuna il generale era solo ferito. Tuttavia i Goti non si arresero e tornarono ad assediare la città: l’assedio durò per un anno e fallì. I Goti furono costretti a ritirarsi con gravi perdite (si dice che circa 1/3 dell’esercito goto andò distrutto). Durante l’assedio della città il popolo patì la fame e la carestia per il progressivo esaurirsi delle riserve di cibo; Belisario cercò di fare quello che poté per soddisfare i bisogni dei Romani ma rigettò con disdegno la proposta di capitolare al nemico. Prese delle severe precauzioni per assicurarsi della fedeltà dei suoi uomini: cambiava due volte al mese gli ufficiali posti a custodia delle porte della città, ed essi venivano sorvegliati da cani e altre guardie per prevenire un eventuale tradimento. Quando venne intercettata una lettera che assicurava al re dei Goti che la porta Asinaria sarebbe stata segretamente aperta alle sue truppe, Belisario bandì numerosi senatori e convocò nel suo ufficio (Palazzo Pinciano) Papa Silverio e gli comunicò che per decreto imperiale non era più Papa e che era stato condannato all’esilio in Oriente. Al posto di Silverio venne nominato Papa Virgilio, che aveva comprato la nomina a papa per 200 libbre d’oro. Belisario nel fare ciò obbediva agli ordini dell’imperatrice Teodora che voleva un papa contrario alle tesi propugnate al Concilio di Calcedonia. Belisario chiese urgentemente all'Imperatore nuovi rinforzi in quanto le truppe che aveva non erano sufficienti per soggiogare l'Italia: « Secondo i vostri ordini, sono entrato nei domini dei Goti, e ho ridotto alla vostra obbedienza l’Italia, la Campania, e la città di Roma. […] Fin qui abbiamo combattuto contro sciami di barbari, ma la loro moltitudine può alla fine prevalere. […] Permettetemi di parlarvi con libertà: se volete, che viviamo, mandateci viveri, se desiderate, che facciamo conquiste, mandateci armi, cavalli e uomini. […] Quanto a me la mia vita è consacrata al vostro servizio: a voi tocca a riflettere, se […] la mia morte contribuirà alla gloria e alla prosperità del vostro regno. » (Belisario). Giustiniano rispose alle richieste del suo generale inviando in Italia 1600 mercenari tra Slavi e Unni, sotto il comando dei generali Martino e Valente. In seguito vennero inviati anche 3.000 Isauri e più di 2.000 cavalli. Tutti questi rinforzi si riunirono a Roma. Nel frattempo Belisario diede udienza a degli ambasciatori goti: quest’ultimi, in cambio della pace, erano disposti a cedere la Sicilia ai Bizantini; Belisario con disprezzo li prese in giro: « L’imperatore non è meno generoso e in contraccambio di un dono, che voi più non possedete, vi regala un'antica provincia dell’Impero: rinunzia egli ai Goti la sovranità dell’isola britannica. »
(Belisario). Belisario, pur rifiutando l’offerta di un tributo, permise agli ambasciatori goti di parlare con Giustiniano, che concesse loro una tregua di tre mesi, che durò per tutto l’inverno. Durante la tregua, Belisario decise di creare un diversivo in modo che i Goti levassero l'assedio: egli infatti ordinò a Giovanni il Sanguinario di conquistare il Piceno, provincia che conteneva molte ricchezze e che era stata sguarnita dai Goti per tentare la presa di Roma. Vitige, venuto a conoscenza che Giovanni aveva conquistato il Piceno e concentrato le sue ricchezze nelle mura di Rimini, decise di togliere l'assedio. Dopo un anno e nove giorni di assedio, i Goti si ritirarono dalle mura della Città Eterna.

Distruzione di Milano e conquista di Ravenna

Quando finalmente giunsero rinforzi da Costantinopoli il generale organizzò una nuova offensiva: inviò il suo braccio destro, Narsete, a liberare dall'assedio Ariminum (Rimini), mentre fece dirigere l'altro suo luogotenente Mundila a nord per conquistare Mediolanum (Milano). Tuttavia, non passò molto tempo prima che i contrasti fra Narsete e Belisario si facessero drammaticamente sentire: Narsete era obbligato a obbedire a Belisario, tranne nei casi di vantaggio pubblico, e questa eccezione permise a Narsete di fare spesso di testa sua, disobbedendo agli ordini di Belisario. Ciò disunì l’esercito, con una fazione dalla parte di Belisario e un’altra dalla parte di Narsete, rendendo più difficoltosa la conquista dell’Italia. Alla fine Giustiniano, comprendendo come fosse deleteria la rivalità tra Belisario e Narsete, decise di richiamare l’eunuco a Costantinopoli, ridando così a Belisario il completo controllo dell’esercito. A pagare le conseguenze della rivalità tra Belisario e Narsete furono i cittadini di Milano, che, assediati da 30.000 Goti guidati da Uraia e difesi solamente da una guarnigione di 800 uomini al comando di Mundila, furono costretti per fame a capitolare. Mundila fu spedito a Rimini, ma i cittadini milanesi furono in gran parte trucidati e la città saccheggiata e devastata (539). A questo periodo si deve la distruzione dei marmi e dei grandi edifici della Milano ex capitale dell'Impero Romano d'Occidente, dalla basilica ai templi pagani, fino alle grandi e ricche ville patrizie che vennero letteralmente e sistematicamente spogliate ed infine date alle fiamme come tutta la città. In quei mesi erano intervenuti in Italia, per dare man forte ai Goti, i Franchi e i Burgundi. Costoro, discesi nella Pianura Padana al comando di Teodeberto, attraverso i valichi alpini dell'attuale Svizzera, presero parte alle stragi e alla distruzione di Milano cui abbiamo fatto accenno. Vennero tuttavia costretti a ritirarsi per la dissenteria. Belisario attaccò nel 540 Ravenna, capitale degli Ostrogoti; tuttavia durante l'assedio della città ricevette una brutta notizia: infatti Giustiniano aveva firmato un trattato di Pace con i Goti che stabiliva che i Goti avrebbero ceduto ai Bizantini solo l'Italia al Sud del Po mentre la Gallia cisalpina (Italia al nord del Po) sarebbe rimasta in loro possesso. Belisario rifiutò questo trattato, essendo determinato a condurre Vitige prigioniero ai piedi di Giustiniano. I Goti allora proposero a Belisario di diventare loro re al posto di Vitige. Belisario fece finta di accettare la proposta per farsi aprire le porte per poi, dentro le mura di Ravenna, depredarla e consegnarla ai Bizantini. Vitige venne fatto prigioniero ed inviato con sua moglie a Costantinopoli. Giustiniano non volle decretargli il trionfo e non permise che il tesoro di Teodorico il Grande venisse esposto al pubblico, riservando a sé il diritto di conservarlo ed ammirarlo.

Ascesa di Totila

L'assenza di Belisario dall'Italia e i dissensi fra i vari generali bizantini permisero ai Goti di riorganizzare le loro forze in Italia settentrionale, sulla scia del successo avuto a Milano. D'altra parte Procopio testimonia come lo stesso Belisario si fosse accontentato della presa di Ravenna, stimando che nulla di pericoloso potesse provenire dalle terre al di là del Po. Fece un errore di valutazione: nel 541 gli Ostrogoti acclamarono Badùila (passato alle cronache come Totila, l'immortale), capo della guarnigione di Treviso, come loro nuovo condottiero, dopo che questi aveva assassinato il predecessore, Erario, reo di aver avviato dei negoziati con l'Impero. Totila capì subito gli errori commessi da Vitige ed evitò di impegnarsi in estenuanti assedi, in cui i Bizantini potevano avere la meglio. Anche per questo motivo, quando conquistava delle città, ne abbatteva le mura, per evitare che i Bizantini, nel caso fossero riusciti a riconquistarle, si rinserrassero dentro le mura costringendo il re goto a un altro assedio. Inoltre, resosi conto che con una flotta avrebbe avuto maggiori possibilità di vittoria, allestì una potente flotta in grado di intercettare le navi nemiche e saccheggiare i territori dell'Impero. Il re goto si rese conto inoltre che la guerra non poteva essere vinta senza l'appoggio delle genti italiche, che erano in massima parte favorevoli ai Bizantini: non potendo però avere il sostegno dei latifondisti e dei patrizi locali (in massima parte legati all'Impero), cercò e in parte ottenne l'appoggio delle popolazioni rurali, impegnandosi in una riforma agraria di stampo egualitaristico, in base alla quale i grandi latifondisti venivano espropriati dei loro terreni e i servi venivano affrancati per entrare in massa nell'esercito di Totila. Per lo stesso scopo cercò di essere il meno brutale possibile con le popolazioni civili sottomesse. Nel frattempo, su pressioni di Giustiniano, i comandanti imperiali decisero di sferrare l'offensiva finale al regno goto: il loro piano era quello di espugnare Verona e poi affrontare in battaglia Totila per vincerlo; in un primo momento i Bizantini ebbero successo, conquistando Verona, ma i Goti contrattaccarono e riuscirono a sconfiggere il nemico, che fu costretto a evacuare Verona e a ritirarsi a Faenza. Totila, dopo questo successo, andò ad affrontare i Bizantini presso Faenza, dove ottenne, nonostante l'inferiorità numerica, un altra vittoria. Rinvigorito dal successo, il re goto tentò l'assedio di Firenze ma alla notizia dell'arrivo di un forte esercito imperiale, prese la decisione di abbandonare l'assalto della città fiorentina e dirigersi nella valle del Mugello dove si scontrò con l'esercito imperiale. La scarsa coordinazione tra i comandanti imperiali, unita alla falsa notizia diffusasi tra i Bizantini che il loro generale Giovanni era morto, favorì una nuova vittoria di Totila, che in estate si impadronì di Cesena, Rocca Pertusa, Urbino e San Leo, mentre i comandanti sconfitti nella battaglia del Mugello si rinserrarono nelle loro rispettive fortezze timorosi di affrontarlo. Scese successivamente lungo la Flaminia (pur lasciando in mano bizantina alcune roccaforti come Spoleto e Perugia) e, evitando Roma, riuscì ad espugnare Napoli (543). Totila, re di un popolo ariano, rapido nelle decisioni, audace e nemico dei proprietari terrieri (fra cui molti ecclesiastici) fu dipinto a tinte fosche dai membri della Chiesa in Italia. Quest'ultima era guidata all'epoca da papa Vigilio legato strettamente a Giustiniano che lo aveva posto al soglio pontificio, dopo aver brutalmente deposto, nel 537, il santo papa Silverio (o fatto assassinare come insinua velenoso Procopio). Papa Gregorio Magno descrisse Totila come un Anticristo, e lo stesso San Benedetto (che secondo la leggenda ricevette a Montecassino la visita del re goto poco prima della conquista di Napoli) gli predisse il successo, la conquista di Roma, ma poi la rovina se non si fosse redento dai suoi "propositi delittuosi" (fra cui, forse, la riforma agraria). Giustiniano non stette con le mani in mano. Mentre Totila assediava Napoli, l'Augusto inviò il neoeletto prefetto del pretorio d'Italia Massimino in soccorso della città partenopea, ma quest'ultimo, essendo inesperto negli affari militari e timoroso di affrontare il nemico, si attardò prima nell'Epiro e poi in Sicilia, inviando soccorsi alla città solo dopo molte pressioni e con molti mesi di ritardo; il risultato fu che Totila riuscì a vincere la flotta bizantina e a costringere la città alla resa per fame. Totila fu clemente con i vinti: dopo aver abbattuto le mura della città, risparmiò e sfamò la popolazione e scortò il presidio bizantino con cavalli e uomini fino a Roma. La situazione per l'Impero era comunque disperata. Totila, oltre a Napoli, aveva sottomesso molte regioni del Sud Italia, e aveva inoltre l'appoggio della popolazione, inasprita dall'eccessivo fiscalismo bizantino (Giustiniano aveva inviato in Italia, immediatamente dopo la partenza di Belisario, un esattore (logoteta) di nome Alessandro detto Forficula per la sua rapacità). Vista la situazione disperata, nel 544 Belisario fu nuovamente inviato in Italia. Belisario organizzò la sua spedizione a sue spese e, con un esercito di 4.000 uomini tra Traci e Illirici, sbarcò a Otranto, riuscendo a liberarla dall'assedio goto; la scelta sbagliata della sede da cui condurre le operazioni militari, Ravenna, influenzò negativamente il proseguimento della guerra: l'antica capitale dell'Impero d'Occidente era infatti poco adatta in quanto lontana da Roma e dal mezzogiorno d'Italia, che bisognava liberare dai Goti di Totila. A influenzare negativamente la guerra contribuirono anche gli scarsi rifornimenti di uomini e mezzi, dovuti alla gelosia di Giustiniano. Per la carenza di soldi Belisario fu costretto a depredare gli Italici, causando tra le altre cose la resa di Spoleto, che venne consegnata ai Goti da Erodiano, a cui Belisario aveva chiesto dei soldi giungendo persino a ricattarlo con ogni sorta di minacce. Sempre per lo stesso motivo, Belisario fu costretto di viaggiare da una postazione all'altra facendo il periplo per mare, non potendo affrontare una battaglia via terra contro i Goti per la sua inferiorità numerica. Nell'estate del 545 Belisario scrisse all'Imperatore la seguente lettera: « Sono arrivato in Italia senza uomini, cavalli, armi, o soldi. Le province non possono fornire entrate, sono occupate dal nemico; e il numero delle nostre truppe è stato ridotte da larghe diserzioni ai Goti. Nessun generale potrebbe aver successo in queste circostanze. Mandatemi i miei servitori armati e una grande quantità di Unni e di altri Barbari, e inviatemi del denaro. ». Con questa lettera Belisario inviò a Giustiniano Giovanni. Quest'ultimo, tuttavia, invece di tornare subito con i rinforzi, si fermò nella capitale per alcuni mesi, sposando la figlia di Germano. Nel frattempo Totila stava soggiogando la Toscana e il Piceno. Verso la fine del 545 Belisario lasciò Ravenna e si diresse a Durazzo dove inviò all'Imperatore richieste di rinforzi. Venne qui raggiunto dai generali Giovanni e Isacco, intorno al 546. Decise di giungere via mare a Roma mentre Giovanni sarebbe sbarcato in Calabria e lo avrebbe raggiunto nella Città Eterna. Giunto a Porto, Belisario rimase lì in attesa di Giovanni ma quest'ultimo, dopo aver soggiogato Puglia e Calabria e Lucania e Bruzio, decise di non raggiungere la Città Eterna per la presenza dei Goti a Capua. Secondo la Storia segreta di Procopio il rifiuto di Giovanni di raggiungere Belisario a Roma sarebbe dovuto ai suoi timori di venire assassinato da Antonina, dato che Teodora gli era ostile e avrebbe potuto chiedere alla moglie di Belisario di ucciderlo. Il re ostrogoto assediò Roma dopo la presa di Assisi e Spoleto; Roma era difesa da Bessa, il quale però si arricchiva a spese della popolazione vendendo le scorte di cibo a carissimo prezzo; di conseguenza molti Romani soffrirono la fame e molti, per la disperazione, abbandonarono la città. Belisario, giunto a Porto, a pochi passi da Roma, tentò di portare provviste in città ma il suo piano fallì a causa del mancato appoggio di Bessa, che, nonostante la richiesta di Belisario, non fece nessuna sortita offensiva contro i Goti in contemporanea con quella di Belisario. Nel frattempo le truppe a presidio della città erano mal pagate e di conseguenza alcune di loro aprirono a tradimento le porte dell'Urbe a Totila, il quale la conquistava il (17 dicembre 546). Le offerte di pace di Totila tramite il prelato Pelagio (futuro papa Pelagio I) furono però rifiutate da Giustiniano che rispondeva di "trattare direttamente con Belisario"; Totila minacciò di distruggere la Città Eterna ma a fargli cambiare idea giunse una lettera di Belisario che gli intimò di non deturpare la bellezza di Roma. Totila con generosità risparmiò la città e momentaneamente si ritirò da essa, perdendola in tal modo pochi mesi più tardi. Belisario decise infatti di marciare contro Roma: entrò nella Città Eterna e la rioccupò, ricostruendo parzialmente le mura abbattute da Totila. Nonostante non avesse ancora sostituito le porte della città, distrutte dai Goti, riuscì a respingere un primo assalto di Totila, che aveva tentato invano di reimpadronirsi della città. Ottenuto questo successo, il generale ricostruì le porte e spedì le chiavi della città a Giustiniano. Nel frattempo scrisse numerose lettere a Giustiniano chiedendo rinforzi. Alla fine Giustiniano decise di accontentarlo e inviò rinforzi in Calabria sotto il comando di Valeriano (dicembre 547). Belisario partì quindi per raggiungere i rinforzi a Taranto: dopo aver selezionato 900 tra i suoi uomini migliori, 700 cavalieri e 200 fanti, partì per Taranto. La difesa di Roma venne affidata al generale Conone con il resto dell'esercito. Il cattivo tempo lo costrinse però a sbarcare a Crotone per poi ripiegare a Messina. Nel giugno 548 arrivarono i rinforzi guidati da Valeriano; Belisario quindi, sapendo quanto Antonina e Teodora fossero amiche, inviò sua moglie a Costantinopoli per ottenere dall'Imperatrice ulteriori aiuti; tuttavia al suo arrivo Antonina scoprì che Teodora era morta (28 giugno 548). Con i rinforzi tentò di liberare Rossano dall'assedio dei Goti ma il suo sbarco venne impedito dal nemico. Belisario decise quindi di tornare a Roma, affidando l'esercito a Giovanni e a Valeriano. Qui venne richiamato a Costantinopoli dall'Imperatore, che venne persuaso a farlo da Antonina. Secondo la Storia Segreta fu Belisario a chiedere di ritornare a Costantinopoli. Questo fu il giudizio di Procopio sulla seconda campagna in Italia di Belisario: « Belisario fece un ben vergognoso ritorno dalla sua seconda missione in Italia. In cinque anni non riuscì mai, come ho detto nei precedenti libri, a sbarcare su un tratto di costa che non fosse controllato da un suo caposaldo: per tutto questo tempo continuò a bordeggiare le coste. ».

Presa e distruzione di Roma

Approfittando dell'assenza di Belisario, Totila riconquistò Roma, che dovette subire, per la quarta volta, un assedio (549). Dopo quattro assedi Roma sembrava un unico campo di battaglia. Se nella prima conquista della città da parte di Totila, tutto ciò che era rimasto della città pagana era stato risparmiato, nei successivi assedi l'Urbe perse il suo grandissimo patrimonio architettonico. Gli assediati bizantini per far fronte alla carenza di armi dovettero eliminare tutto il bronzo che rimaneva nei templi. Il Foro Romano era mutilato di ogni statua o rostrum che da secoli lo aveva caratterizzato, il tempio di Giove Ottimo Massimo in cima al Campidoglio era ridotto ad un cumulo di macerie e colonne a causa delle spoliazioni. Si stima che circa trentamila statue bronzee siano state fuse soltanto durante questi assedi e che circa 250 mila colonne di marmo siano cadute per esser riusate come rinforzo alle porte cittadine o addirittura come arma contro i nemici oltre le mura (venendo fatte rotolare lungo le mura al momento dell'assedio) oppure per venire riutilizzate nella costruzione di chiese. A questo periodo si fa risalire la distruzione completa delle grandi Basiliche romane: la Basilica Emilia, la Basilica Giulia e la più grande, la Basilica Ulpia, tutte crollarono a causa di ripetuti incendi. Le macerie della Basilica Ulpia erano tanto grandi che ostruirono in parte il Foro di Augusto ed il Foro di Cesare. I Goti, nell'ultima presa della città, ed in segno di disprezzo, abbatterono tutti i più grandi edifici pagani rimasti: si persero così il tempio di Venere e Roma e la sua colossale statua; le Terme di Caracalla e quelle di Traiano vennero spogliate di ogni cosa, dal bronzo rimasto al marmo perfino i mosaici furono strappati. Totila si insediò poi all'interno dei Palazzi Imperiali già precedentemente usati da Teodorico. Erano questi immensi saloni che in breve dopo numerosi saccheggi erano stati spogliati dei marmi e dati alle fiamme più volte in segno di odio nei confronti di Roma, saccheggi questi che avevano un forte significato simbolico dato che sul Palatino era nata la città. Degna di nota è la sorte dei teatri di Roma, le cui orchestre vennero abbattute a martellate sulle colonne. Al termine di quattro assedi disastrosi, Roma era l'ombra di se stessa; all'interno dell'enorme città, che aveva avuto 1 milione e mezzo di abitanti, 15 mila persone vagavano smarrite, perlopiù nobili pagani scampati alla morte, il popolo sopravvissuto e la corte del Papa. La peste iniziò a serpeggiare nell'immensa città, molte zone vennero chiuse con muri, abbandonate e disabitate, dove si annidavano malattie; e in breve la natura nascose quelle zone abbandonate. Franò nell'inverno del 550 dal Campidoglio una grande quantità di terra che coprì le rovine rimaste dei templi di Saturno, Vespasiano, il Tabularium e molti altri edifici adiacenti, persino l'arco di Settimio Severo venne in gran parte sotterrato. Il cuore di Roma divenne un campo di macerie che affioravano dal terreno. Alla fine della guerra, Roma aveva perso gran parte degli edifici antichi ed aumentato il suo livello urbano di 4 metri: si iniziò a costruire sui tetti delle domus e delle insulae.

Morte di Totila e vittoria bizantina

Giustiniano fu costretto pertanto a lanciare in quello stesso anno (549) una nuova campagna di conquista dell'Italia. A capo delle sue truppe pose Germano, suo nipote. Inviò, inoltre, un altro esercito con a capo il generale Liberio per attaccare i Visigoti in Spagna. A seguito della morte di Germano, nel 551, Narsete ottenne di nuovo il comando delle operazioni in Italia: radunò un esercito imponente, senza farsi molti scrupoli di arruolare con generosi donativi Barbari Slavi, Longobardi e Franchi fra le sue schiere, e puntò direttamente verso Roma. Non potendo attraversare la via Flaminia da Fano, perché la roccaforte della gola del Furlo era ben presidiata, probabilmente prese la via di Sassoferrato e Fabriano, sconfiggendo Totila nella Battaglia di Tagina (Gualdo Tadino), detta dei Busta Gallorum. Totila riuscì a fuggire ferito, ma morì nelle immediate vicinanze, in un luogo chiamato Caprae, corrispondente all'attuale frazione di Caprara, dove tuttora esiste un sito chiamato Sepolcro di Totila. Dopo la battaglia decisiva, Narsete costrinse alla resa anche i Goti che ancora occupavano Roma. Qui si inserisce il celebre commento di Procopio, che mise in evidenza come la vittoria bizantina si rivelasse invece una ulteriore disgrazia per gli abitanti di Roma: i barbari arruolati nelle file di Narsete si abbandonarono al saccheggio della città (al punto di "violare le donne nei templi"), tanto che il generale si affrettò a rispedirli alle loro sedi (in particolare, i Longobardi, anche se Paolo Diacono, egli stesso appartenente a tale stirpe, nella sua Historia Langobardorum, non fa menzione dell'episodio pur essendo un religioso). Con la successiva Battaglia dei Monti Lattari combattuta nell'ottobre 553, Narsete sconfisse anche Teia (successore di Totila) e quanto rimaneva dell'esercito goto in Italia. Teia fu l'ultimo re dei Goti.
La Prammatica Sanzione del 554 ricondusse tutti i territori dell'Italia sotto la legislazione dell'Impero bizantino, e reintegrò tutti i proprietari terrieri delle terre alienate dall'"immondo" Totila a favore dei contadini. Le condizioni già precarie delle popolazioni italiche peggiorarono ulteriormente e, come conseguenza della guerra e degli stenti, causati anche dalle imposizioni fiscali, una terribile pestilenza infuriò in Italia dal 559 al 562. Inoltre la guerra non era realmente finita in quanto i Franchi e gli Alamanni invasero la penisola nel 553-554 condotti dai loro capi Butellino e Leutari. Questi furono però sconfitti da Narsete, che nel 555 ottenne la sottomissione dell'ultima fortezza gota a sud del Po. Negli anni successivi Narsete procedette alla sottomissione delle restanti fortezze a nord del Po ancora in mano gota e franca: nel 559 Milano era di nuovo in mano imperiale e nel 561/562 con la resa di Brescia e Verona la guerra poteva dirsi definitivamente conclusa.

Conquista in parte effimera

La conquista di alcune regioni italiane risultò essere effimera per i Bizantini, mentre il dominio di altre si protrasse per alcuni secoli. Stando a ciò che scrive Paolo Diacono, dissensi fra Narsete e il nuovo imperatore Giustino II (oppure, come indica Paolo Diacono con ironia, le continue contumelie dell'imperatrice Sofia), spinsero Narsete a chiamare in Italia il re dei Longobardi Alboino. Tali asserzioni sono prive di fondamento storico, pur tuttavia è attestata da Procopio la presenza di Longobardi al comando di Audoino (padre di Alboino) nella battaglia di Tagina. Secondo la tradizione riportata da Paolo Diacono, il giorno di Pasqua del 568 Alboino entrò in Italia. I Bizantini furono costretti a ritirarsi davanti all'avanzata dei Longobardi, tanto che fin dagli anni ottanta del VI secolo l'Esarcato d'Italia aveva già perso il controllo della massima parte dell'Italia settentrionale e di gran parte di quella centro-meridionale. Va però segnalato che Roma, Venezia, Ravenna e la Romagna, la Sicilia e la Sardegna resteranno in mano bizantina per altri due secoli e che vaste zone costiere dell'Italia del sud faranno parte dell'Impero romano d'Oriente (comunemente definito Impero bizantino), fino alla conquista normanna (XI secolo).

Conseguenze della guerra

Il breve governo bizantino su tutto il territorio italiano fu, però, particolarmente duro e contraddistinto da una forte pressione fiscale che ricadeva sulle genti italiche. Il lungo conflitto aveva infatti drenato le casse dell'Impero Romano d'Oriente proprio quando iniziavano sempre più a profilarsi serie minacce di invasioni provenienti sia dalla Persia che dalle popolazioni slave dei Balcani. Le conseguenze della guerra si fecero sentire sull'Italia per alcuni secoli, anche perché la popolazione per non essere coinvolta aveva abbandonato le città per rifugiarsi nelle campagne, portando a compimento quel processo di ruralizzazione e di abbandono dei centri urbani iniziato nel V secolo. Anche se le cifre delle vittime riportate da Procopio sono forse esagerate, si può stimare che buona parte della popolazione italiana fosse stata decimata dagli assedi, dalle carestie e dalla peste. Particolarmente raccapriccianti sono, nella testimonianza di Procopio, i dettagli degli stenti subiti dalla popolazione di Milano durante l'assedio del 539. La ripresa demografica ed economica d'Italia inizierà timidamente a profilarsi solo in età carolingia (IX secolo) e potrà dirsi completata non prima della nascita e dello sviluppo dei primi comuni (XI secolo). Inoltre, la differenziazione fra domini longobardi nella terraferma, tipicamente organizzati in ducati (Cividale, Verona, Pavia, Milano, Spoleto, Benevento), e domini bizantini sulla costa (Venezia, Napoli, Ravenna, la Pentapoli), diede avvio a un processo di frammentazione politica che sarà tipico dell'Italia fino al XIX secolo.

(827-1091)

Contesto storico precedente all'invasione

Già a partire dal VII secolo l'isola aveva subito molte incursioni musulmane. Gli Arabi si erano attestati sulla sponda africana del Mar Mediterraneo, avevano già conquistato parte della Spagna e le isole di Malta e Pantelleria. La Sicilia era ritenuta strategica per il controllo del Mediterraneo a discapito dei rivali Bizantini. La disgregazione dell'Impero bizantino e la sua debolezza si facevano pesantemente sentire in Sicilia, alimentando un certo malcontento, in un'area che da sempre, sia politicamente che culturalmente, si sentiva più vicina ed attratta da Roma e da quello che fu l'Impero d'Occidente piuttosto che da Costantinopoli e dall'Impero d'Oriente.
Tra l'803 e l'820 l'efficienza bizantina nel quadrante centrale del Mediterraneo cominciò a decrescere vistosamente, in concomitanza con il governo dell'Imperatrice Irene mentre la vicenda di Tommaso lo Slavo contribuiva ad accrescere lo stato di debolezza dell'Impero.
Il turmarca della flotta bizantina Eufemio di Messina, che s'era impadronito del potere in Sicilia con l'aiuto di vari nobili, chiese l'aiuto degli Arabi nell' 825 per tutelare il suo dominio sull'isola. I Bizantini reagirono duramente sotto la guida di Fotino ed Eufemio, battuto a Siracusa, scappò in Ifriqiya. Lì trovò rifugio presso l'emiro aghlabide di Qayrawan, Ziyadat Allah I, cui chiese aiuti per realizzare uno sbarco in Sicilia e cacciare gli odiati bizantini. Gli Aghlabidi erano allora squassati da un acuto contrasto che contrapponeva la componente indigena, islamizzata in seguito alle prime conquiste islamiche del VII secolo e condotta da Man?ur al-Tunbudhi, all'esercito arabo che era giunto in Ifriqiya (all'incirca l'attuale Tunisia) all'epoca dell'istituzione dell'Emirato, per volere del califfo Harun al-Rashid col primo Emiro Ibrahim ibn al-Aghlab. I musulmani, che forse avevano già progettato un'invasione della Sicilia, prepararono una flotta di 70 navi, chiamando al jihad marittimo il maggior numero di volontari, ufficialmente per assolvere a un obbligo morale ma di fatto per allontanare dall'Ifriqiya il maggior numero possibile di sudditi facinorosi che non avevano mancato di creare gravi tensioni, tanto nelle file della componente araba quanto all'interno dei ranghi berberi, con grave nocumento per la popolazione civile.

L'invasione musulmana

L'invasione ebbe inizio il 17 giugno dell' 827 e lo stuolo in gran parte berbero (ma alla guida di elementi arabi o persiani), fu affidato al qadi di Qayrawan, Asad b. al-Furat, grande giurisperito malikita autore della notissima Asadiyya, di origine persiana del Khorasan. Lo sbarco avvenne il giorno seguente nei pressi di Capo Granitola, vicino Mazara del Vallo e fu occupata Marsala (in arabo Marsa ?Ali, il porto di ?Ali o Marsa Allah, ossia il "porto di Dio") ed entrambi i centri furono fortificati e usati come testa di ponte e base di attracco per le navi. La spedizione che voleva con ogni probabilità (al di là del leggendario racconto cristiano) effettuare una razzia in profondità dell'isola, non s'illuse di poter superare le formidabili difese di Siracusa, la capitale bizantina dell'isola, ma la sostanziale debolezza bizantina, da poco uscita da un duro conflitto contro l’usurpatore Tommaso lo Slavo, fece prospettare ad Asad la concreta possibilità che l'iniziale intento strategico potesse essere facilmente mutato in una spedizione di vera e propria conquista.
Superato in uno scontro dall'indeterminata ampiezza un non meglio identificato Balatas (Curopalates?), messo in fuga presso Corleone, e superata quindi alla meglio nell'828 un'epidemia, probabilmente di colera, che portò alla morte per dissenteria lo stesso Asad (sostituito da Muhammad b. Abi l-Jawari per volere degli stessi soldati), i musulmani ottennero rinforzi nell'830, in parte dall'Ifriqiya (allora impegnata a respingere l'attacco del duca di Lucca, Bonifacio II) e in maggior parte da al-Andalus, mentre in Sicilia giunse un gruppo di mercenari al comando del berbero Asbagh b. Wakil, detto Farghalus. Fu così possibile ai musulmani - che già avevano preso Girgenti (oggi Agrigento, rimasta sempre a stragrande maggioranza berbera) - espugnare nell'agosto-settembre dell'831 Palermo, eletta capitale della Sicilia islamica (Siqilliyya), quindi Messina, Modica e Ragusa, mentre Castrogiovanni (oggi Enna) fu presa solo nell'859. Resisteva Siracusa, sede dello strategos da cui dipendevano tanto il drungariato di Malta quanto le arcontie (ducati) di Calabria, di Otranto e, almeno teoricamente, di Napoli. Fu necessario più d'un decennio per piegare la resistenza degli abitanti del solo Val di Mazara e ancor più per impadronirsi tra l'841 e l'859 del Val di Noto e del Val Demone. Siracusa, superato il blocco impostale tra l'872 e l'873 da Khafaja b. Sufyan b. Sawadan, cadde il 21 maggio 878, a oltre mezzo secolo dal primo sbarco, al termine d'un implacabile assedio che si concluse col massacro di 5.000 abitanti e con la schiavitù dei sopravvissuti, riscattati solo molti anni più tardi. L'ultima roccaforte importante della resistenza bizantina a cedere fu Tauromenium (Taormina) il 1° agosto del 902 sotto gli attacchi dell'emiro Ibrahim b. Ahmad. L'ultimo lembo di terra bizantino a resistere ai musulmani fu Rometta che capitolò solo nel 963. Nel 902 Ibrahim II (Abû el’-Abbâs), dismessi i panni da Emiro aghlabide per il veto opposto alla sua nomina dal califfo abbaside di Baghdad, nella sua volontà di prosecuzione del jihad, tentò di risalire l'Italia per poi giungere, si disse con grande fantasia, fino a Costantinopoli. Passò pertanto lo Stretto e percorse in direzione nord la Calabria. Non trovò particolare resistenza ma la sua marcia si arrestò nei dintorni di Cosenza che forse fu la prima città ad opporre una certa resistenza all'invasione. Tuttavia l'arresto avvenne probabilmente più per il disordine con cui le operazioni militari furono svolte e per la carenza di conduzione militare e di concreti risultati. Inoltre Ibrahim, colto da dissenteria, spirò in breve tempo e le sue truppe, al limite dello sbando, si ritirarono. Così si concluse la velleitaria conquista della "Terra grande" (al-ar? al-kabira).

Contesto economico, culturale e sociale

La Sicilia, con la conquista, rifiorì sia economicamente che culturalmente e godette di un periodo lungo di pace e prosperità. Vennero introdotte tecniche innovative nell'agricoltura, dove, abolita la monocoltura del grano che risaliva al tardo impero, si passò alla varietà delle coltivazioni. Nel commercio l'isola fu inserita in un'estesa rete marittima, divenendo il punto nevralgico degli scambi mediterranei. I musulmani non cercarono di islamizzare direttamente i Siciliani (anche se indirettamente non mancarono argomenti a favore delle conversioni all'Islam). La parte occidentale si convertì comunque quasi al 50% mentre la parte orientale prevalentemente mantenne la fede cristiana. Generalmente i musulmani si mostrarono tolleranti con i cristiani , ai quali applicavano l'usuale statuto giuridico della dhimma, consentendo comunque loro il culto in forma privata e nelle chiese già esistenti. Palermo scelta dall'emiro come capitale ebbe un notevole sviluppo urbanistico. Divenne potente e popolosa. Ibn Hawqal, mercante e geografo nel X secolo nel suo Viaggio in Sicilia parla di Palermo come città dalle trecento moschee. Alcuni personaggi importanti vissuti nell'epoca islamica della Sicilia, si distinsero nelle tecniche, nel diritto, nelle lettere e nelle scienze fra cui Muhammad b. Khurasan, Isma?il b. Khalaf, Yahyà b. ‘Umar, ?Abd al-Rahman b. Hasan, Ja?far b. Yusuf e Ibn al-Khayyat. Negli studi linguistici si ricorda Musà b. Asbagh, Abu Abd Allah Muhammad al Kattani e Saidb. Fatihun.

Il potere

La Sicilia fu gestita in piena indipendenza di fatto dal resto del mondo arabo, anche se formalmente non fu contestato mai il vincolo di dipendenza dagli Aghlabidi dapprima e dai Fatimidi poi. Palermo (Balarm) fu designata capitale in quanto residenza dell'Emiro. Costui era a capo dell'esercito, dell'amministrazione, della giustizia e batteva moneta. È anche assai probabile che a Palermo fosse attivo un ?iraz, laboratorio in cui le autorità sovrane facevano creare tessuti di grande pregio (spesso concessi in segno di apprezzamento ai propri sudditi per premiarli della loro opera o come dono di Stato nel caso dell'invio o del ricevimento di ambascerie straniere).
L'Emiro - che risiedeva nel Palazzo attualmente ospitante la Cappella Palatina (i cui locali inferiori hanno mantenuto visibilmente l'impianto architettonico tipico della cultura aghlabide), nominava i governatori delle città maggiori, i giudici (qadi) più importanti e gli arbitri in grado di dirimere le controversie minori fra privati (hakam). L'isola venne suddivisa amministrativamente in tre valli: Val di Mazara, Val Demone e Val di Noto. Dopo l'invasione le etnie più significative presenti erano quella araba, quella berbera e quella persiana, con qualche raro elemento turco di provenienza centro-asiatica. Dal X secolo l'isola fu governata dai Fatimidi che avevano messo fine all'emirato aghlabide in Ifriqiya ai primi anni del X secolo. Quando questi si spostarono in Egitto, la conduzione dell'isola fu affidata con la più ampia autonomia ai loro fedeli emissari Kalbiti.

La decadenza

Nello scenario di discordie e di instabilità creatosi, i Bizantini tentarono nel 1038 una riconquista con Stefano, fratello dell'imperatore Michele IV il Paflagone, il generale Giorgio Maniace, alcune truppe normanne e da esuli lombardi. La spedizione fu un insuccesso da un punto di vista strategico ma i risultati tattici conseguiti furono di grande importanza. Maniace infatti fu richiamato in patria nel 1040 a causa delle invidie che le sue imprese avevano suscitato e non poté più riprendere in Sicilia le sue azioni militari. Nel suo corpo di spedizione aveva però militato il normanno Guglielmo Braccio di Ferro che, tornato tra i suoi parenti, riferì delle meraviglie dell'isola e della possibilità di farsene un dominio a scapito dei musulmani. Fu così che nel febbraio 1061 i Normanni di Roberto il Guiscardo e, sul campo, dal fratello Ruggero, della famiglia degli Altavilla, sbarcarono a Calcara per iniziare le operazioni di conquista dell'isola. L'occupazione di Messina avvenne poco dopo e, nonostante l'arrivo di rinforzi dal Maghreb e l'eroica resistenza capeggiata da Ibn ?Abbad, la superiorità militare normanna a poco a poco s'impose in un'isola ormai preda delle contese tra i piccoli signorotti (qa?id) musulmani. Contribuì alla disfatta degli arabi anche la Repubblica Marinara di Pisa, che nel 1063 attaccò il porto di Palermo mettendo in grave difficoltà i musulmani e saccheggiando numerose navi, con un bottino che servirà anche per la costruzione della famosa cattedrale in Piazza dei Miracoli. La Sicilia diventò normanna al termine di 30 anni di guerra, con la caduta di Noto nel 1091. Palermo cadde nel 1072, dopo un anno d'assedio.

Le tracce rimaste nel territorio

La chiesa normanna di San Cataldo (Palermo), ricca di elementi architettonici arabi, fu forse realizzata su una preesistente moschea Se nell'oggettistica le tracce musulmane sono numerose e visibili, in architettura invece il periodo islamico non ha lasciato tracce dirette di sé (anche se si discute dell'originalità del Bagno di Cefalà Diana, degli ambienti inferiori della Cappella Palatina, del castello della Cannita e di tratti del complesso di San Giovanni degli Eremiti). Il motivo risiede forse nel fatto che i musulmani in parte si erano limitati a destinare a nuovo uso e a modificare edifici e strutture preesistenti ma, assai più significativa sarebbe stata la volontà di cancellare il ricordo del periodo islamico a guidare l'intento distruttivo delle nuove autorità dell'isola, messo in atto a partire dal periodo angioino. Molte testimonianze artistiche sarebbero state volutamente cancellate, così come avverrà più tardi nella Spagna della Reconquista cristiana. Un'evidente traccia di architettura musulmana in Sicilia rimarrebbe, dunque, nei soli edifici realizzati dai normanni - in tempi alquanto posteriori - ricorrendo a manodopera islamica, fra cui si possono ricordare il Castello della Zisa (dall'arabo ?Aziza, "Meravigliosa"), il Castello della Cuba (dall'arabo qubba, "cupola") di cui faceva parte la Cubula (la "piccola Cuba") - entrambe collocate in un complesso lacustre artificiale, circondato da un'estesa foresta, cui fu dato il nome di Jannat al-ar?, "Il giardino - o paradiso - della terra": il Genoardo. Si ricorderanno anche la Cappella Palatina (cioè di Palazzo) e il parco reale della Favara, dall'arabo Fawwara, "sorgente"). D'altra parte, non si possono non tenere in conto le osservazioni dello storico Peri: "Le spade normanne per quanto affilate e pesanti non valevano a rompere le pietre; e non sembra che i normanni abbiano prediletto distruggere le città occupate con il fuoco, [...] accanimento [...] dal quale comunque le pietre almeno non sarebbero state distrutte né gli edifici sradicati dalle basi". In definitiva, Peri attribuisce l'assenza quasi totale di tracce di un'architettura civile o monumentale in Sicilia dei due secoli di dominazione araba al fatto che i conquistatori berberi importarono sull'isola abitudini abitative tipiche delle coste africane prospicienti: utilizzo del legno per le costruzioni e, soprattutto, trogloditismo, cioè tendenza ad abitare le caverne. C'è poi da dire che parte dell'architettura dell'epoca fu anche riutilizzata nei secoli successivi ed inserita in altri contesti. Ad esempio nel portico sud della Cattedrale di Palermo si trova ancora una colonna con un'iscrizione araba, probabilmente originale, che riporta il versetto 54 della sura 7 del Corano, detta "del Limbo", che recita "Egli copre il giorno del velo della notte che avida l'insegue; e il sole e la luna e le stelle creò, soggiogate al Suo comando. Non è a Lui che appartengono la creazione e l'Ordine? Sia benedetto Iddio, il Signor del Creato!". Diverse e numerose tracce invece si notano nella lingua (specie nel lessico legato all'agricoltura e alle scienze idrauliche) e nella toponomastica.

(1185-1266)

La dominazione sveva in Sicilia ebbe inizio con un matrimonio di stato fra Enrico VI, figlio dell'imperatore Federico Barbarossa, e Costanza d'Altavilla, figlia di Ruggero II. Nel 1185 si aprì così la strada alla conquista Sveva. Nel 1194, con la morte di Guglielmo III, l'isola veniva conquistata dal sovrano tedesco. Aveva così inizio la nuova dinastia degli Svevi in Sicilia che con Federico II, figlio di Costanza I raggiunse il massimo dello splendore. Palermo e la corte divennero il centro dell'Impero, comprendente le terre della Puglia e dell’Italia meridionale. A Palermo nacque la "Scuola poetica siciliana" con la prima poesia italiana; e politicamente il sovrano chiamato "Stupor mundi" (meraviglia del mondo) anticipò – come scrive Santi Correnti – "la figura del principe rinascimentale", anche con le cosiddette Costituzioni Melfitane (1231). Il suo regno fu tuttavia caratterizzato dalle lotte contro il Papato e i Comuni italiani, nelle quali riportò vittorie o cedette a compromessi, organizzando la quarta crociata e dotando l'isola e il meridione di castelli e fortificazioni. Volle essere sepolto nella cattedrale di Palermo, quando nel 1250 si concluse improvvisamente la sua vita, conseguentemente scatenando le lotte di successione in cui Manfredi, figlio naturale di Federico II, venne sconfitto a Benevento nel 126 da Carlo d'Angiò, fratello del re di Francia.

Gli svevi a Catania

La nobiltà catanese non ebbe un rapporto felice con gli Hohenstaufen; nemmeno con il grande Federico II al quale si ribellò nel 1232. L’astio verso il potere imperiale fece nascere diverse leggende tra le quali quella che vuole che il castello Ursino sia stato voluto da Federico II per tenere a bada la popolazione. Avvenimento importante per il futuro della città fu l’inserimento di Catania tra le città demaniali. Finiva così la totale egemonia del vescovo-conte.

Gli svevi a Enna

Nell'allora Castrogiovanni, l'odierna Enna, gli svevi impressero notevolissime tracce della loro presenza, specialmente nell'architettura militare che apportarono alla città. Federico II di Svevia, infatti, scelse Enna come residenza estiva, e a tale scopo ristrutturò completamente il grandioso Castello di Lombardia, facendo rinforzare le sue mura di ben 20 torri e costruendovi un suo palazzo e una cappella vescovile, dove convocò il primo Parlamento siciliano. Sempre all'imperatore svevo si deve la Torre di Federico II di Enna, uno dei più mirabili esempi d'architettura federiciana in Sicilia.

Gli svevi a Siracusa

La conquista sveva di Siracusa avviene solo nel 1221. Precedentemente, Siracusa è stata inclusa nei domini genovesi per 15 anni. La dominazione genovese favorisce l'incremento del commercio. Sotto i normanni, Siracusa rafforza la sua posizione di bastione militare, si avvia la costruzione del Castello Maniace, nonché l'edificazione di diversi edifici: il primo impianto di palazzi storici come quello Vescovile e il palazzo Bellomo.

Gli svevi ad Augusta

Fu costruito sotto Federico II il castello di Augusta. Indagini archeologici rivelarono una torre ottagonale nella parete sud del cortile (i resti dentro l'edificio, nell'ala costruita dai spagnoli).

(1266-1282)

Alla fine della dinastia degli Hohenstaufen, nel 1266 la Sicilia venne assegnata dal Papa, che considerava l’isola patrimonio della Chiesa, a Carlo I d'Angiò; ma il dominio angioino in Sicilia ebbe breve durata. Nell'estate del 1282 Messina fu posta sotto assedio da Carlo I d'Angiò, consapevole che non avrebbe mai potuto avanzare all'interno della Sicilia se non dopo aver espugnato la città sullo stretto. L'assedio durò fino a tutto il mese di settembre, ma la città non fu espugnata. Catania fu uno dei centri delle rivolte contro gli angioini: i catanesi, che avevano subito ingiustizie, sfruttamenti ed erano stati danneggiati economicamente dalla chiusura dei porti della città, contribuirono validamente al rovesciamento della “mala signoria”. I più importanti nomi che animarono la rivolta a Catania furono quelli di Palmiero, abate di Palermo, Gualtiero da Caltagirone, Alaimo da Lentini e Giovanni da Procida. Quest’ultimo nel 1280, travestito da monaco, si recò dal papa Niccolò III, dall’imperatore di Bisanzio Michele Paleologo e dal re Pietro III d'Aragona, per chiedere: al papa di non appoggiare Carlo d’Angiò in caso di rivolta; all’imperatore Michele l’appoggio esterno contro il nemico comune; e al re d’Aragona di far valere il suo diritto al trono di Sicilia in quanto marito di Costanza figlia di Manfredi, l’ultimo degli Hohenstaufen. Nel frattempo i siciliani avevano offerto la corona di Sicilia a Pietro III d'Aragona, marito di Costanza, figlia del defunto Re Manfredi di Svevia, trasformando l'insurrezione in un conflitto poltico fra Siciliani ed Aragonesi da un lato e gli Angioini, il Papato, il Regno di Francia e le varie fazioni guelfe dall'altra. Nel 1282 i moti meglio conosciuti come “Vespri siciliani” posero fine al dominio dell’isola da parte della dinastia francese. Appena scoppiò la rivolta in Sicilia, la flotta aragonese era già a Palermo e l’occupazione della città da parte di Pietro dava così inizio alla dominazione degli Aragonesi in Sicilia (1282-1410). Il 26 settembre 1282, Re Carlo, sconfitto, fece ritorno a Napoli.

(1282-1513)

Dal momento in cui re Carlo aveva messo piede in Sicilia, una serie di rivolte avevano minato il potere angioino sull'isola. Il fiscalismo esoso della nuova dinastia, la mancanza di sensibilità verso i problemi del popolo e i soprusi operati dalla classe dirigente si erano presto inimicati l'intera popolazione. Inoltre i papi, Clemente IV e Martino IV, furono accondiscendenti nei confronti di Carlo d'Angiò e ciò non facilitò la situazione. Dall'altra parte del mar Mediterraneo, nel regno di Aragona, la regina Costanza, figlia di Manfredi ed unica discendente della dinastia sveva, premeva il marito Pietro III d'Aragona per ritornare in Sicilia, dove la popolazione manteneva ancora il ricordo dello splendore raggiunto con il nonno l'imperatore Federico II.

I Vespri

La scintilla dell'inizio delle rivolte dette Vespri siciliani sbloccò la situazione. Il 31 marzo 1282 a Palermo iniziò una vera e propria carneficina di francesi. In loro difesa arrivò Carlo dal continente. Iniziò così l'assedio di Messina, che durò alcuni mesi senza nessun risultato. Giovanni da Procida, fido consigliere della famiglia Hohenstaufen anche in Spagna, fu uno dei principali protagonisti della rivolta e fu lui a favorire l'arrivo in Sicilia di Pietro III, a cui offrì la corona. Per questo sarebbe stato nominato Gran Cancelliere di Sicilia. Quest'atto significò la trasformazione della semplice insurrezione in un vero conflitto poltico fra Siciliani ed Aragonesi da un lato e gli Angioini, il Papato, il Regno di Francia e le varie fazioni guelfe dall'altra.

Lo sbarco di Pietro

Sconfitto su tutti i fronti, Carlo d'Angiò fu costretto a ritirarsi nel settembre 1282. Pietro III fu così libero di impadronirsi del trono e di ottenere il titolo di Re di Sicilia. Mantenne però divise le corone di Aragona e Sicilia. In sua assenza nominò un luogotenente per sostituirlo. Si avvicendarono così nella conduzione del regno Alfonso III d'Aragona, Giacomo II d'Aragona e Federico III d'Aragona. La situazione politica, a vent'anni di distanza dalla prima rivolta, non era ancora chiara. Carlo II d'Angiò rivendicava ancora l'isola e gli Aragonesi, in difficoltà in Spagna, cercarono con un accordo con gli angioini una via d'uscita dal conflitto che si stava venendo a ricreare, abbandonando così i siciliani e le loro aspettative. In questo contesto il Parlamento Siciliano, riunito al Castello Ursino di Catania, elesse come Re di Sicilia Federico III d'Aragona, molto sensibile alle istanze della Sicilia. Il piano di alleanze fu stravolto: da questo momento i Siciliani continuarono la lotta sotto la reggenza di Federico, contro sia gli Angioini che gli Aragonesi di Spagna del Re Giacomo.

Il Parlamento Siciliano in epoca aragonese

Il Parlamento Siciliano composto da feudatari, sindaci delle città, dai conti e dai baroni era presieduto e convocato dal re. La funzione principale era la difesa dell'integrità della Sicilia, come valore massimo anche nei confronti dell'assolutismo del re e nell'interesse di tutti i siciliani. Il re, infatti, non poteva stringere accordi di qualunque natura (politica, militare o economica) ne dichiarare guerre senza aver prima consultato ed ottenuto l'approvazione dell'organo parlmentare che, per costituzione, doveva essere convocato almeno una volta l'anno nel giorno di «Tutti i Santi». Il Parlamento costituzionalmente aveva il compito di eleggere il re e di svolgere anche la funzione di organo garante del corretto svolgimento della giustizia ordinaria esercitata da giustizieri, giudici, notai e dagli altri ufficiali del regno.


La pace di Caltabellotta

Nel 1302 si firmò la pace di Caltabellotta, che divideva il meridione italiano in regno di Trinacria (solo l'isola), affidato a Federico ed Eleonora d'Angiò (figlia di Carlo II), e quello di Sicilia (la penisola), guidato da Carlo. Federico, affidata la corona al figlio Pietro, cercò di aggirare la pace e la guerra riprese. Si riuscì a trovare un accordo finale solo alla morte di Pietro (1342), quando salì al trono il figlio Ludovico sotto tutela di Giovanni d'Aragona. Fu probabilmente grazie alla diplomazia di Giovanni che si raggiunse un primo accordo di pace con gli Angioini detto la «Pace di Catania» l'8 novembre 1347. Ma la guerra fra Sicilia e Napoli si sarebbe chiusa solo il 20 agosto 1372 dopo ben novanta anni, con il Trattato di Avignone firmato da Giovanna d'Angiò e Federico IV d'Aragona con l'assenso di Papa Gregorio XI.

Casato di Barcellona

Il cosiddetto casato di Barcellona (a cui appartenevano tutti i regnanti d'Aragona) continuò fino al 1410. A Ludovico successe Federico III il semplice. Federico lasciò il regno alla figlia minorenne Maria nata dal matrimonio con Costanza figlia del re Pietro IV d'Aragona, affiancata da quattro vicari: Artale Alagona, Guglielmo Peralta, Francesco Ventimiglia e Manfredi Chiaramonte. Artale Alagona scelse per la giovane regina Maria la residenza del castello Ursino di Catania, progettando di darla in sposa a Galeazzo Visconti, duca di Milano. Ma la fazione capeggiata dai Ventimiglia, baroni d’origine catalana, volevano che sposasse Martino figlio del duca di Monteblanc presunto erede del trono aragonese. Il rapimento di Maria portato a termine da Gugliemo Raimondo Moncada fece fallire i progetti del Gran Giustiziere del regno e permise il matrimonio della regina con Martino di Monteblanc. Re Martino, dopo la morte di Maria avvenuta nel 1402, sposò Bianca, erede del trono di Navarra, che scelse di stabilirsi a Catania assieme alla corte. Ma Martino muore a Cagliari nel 1409 all’età di 33 anni e a lui succede il vecchio padre Martino duca di Monteblanc che però morirà l’anno successivo.

Dinastia Trastamara

Il primo re Trastamara fu Ferdinando I il giusto. Con la sua elezione come re di Aragona, Valencia e Catalogna la Sicilia fu dichirata provincia del regno aragonese. La vedova regina Bianca fu confermata “vicaria”. La Sicilia quindi non fu più un Regno ma solo una provincia e sarebbe rimasta così fino alla dominazione borbonica. Il successore di Ferdinando I, Alfonso il Magnanimo riunì il 25 maggio 1416, nella sala dei Parlamenti di castello Ursino tutti i baroni e i prelati dell’isola per il giuramento di fedeltà al sovrano e fino al 30 agosto vi si svolsero gli ultimi atti della vita politica che videro Catania come città capitale del regno. Lo stesso re Alfonso permise la nascita a Catania dell’Università più antica della Sicilia o Siciliae Studium Generale (1434). Nel 1442 Alfonso conquistò il Regno di Napoli assumendo il titolo di Rex Utriusque Siciliae e unificando anche formalmente i due regni. Gli ultimi due re sono gli stessi del regno d'Aragona: Giovanni I e Ferdinando II, che con le nozze con Isabella di Castiglia unifica la corona di Sicilia a quella di Spagna. È il 1516.

(1060-1194)

La conquista normanna

La Sicilia su cui giungono i Normanni, nel 1061, rappresentava una sorta di modello tra le "province" che orbitano intorno all'espansione araba del IX secolo. Essa, infatti, era stata conquistata in seguito al jihad promosso da Asad ibn al-Furat nell'827, per quanto intorno al 1040 tanto la Sicilia araba che i dominati arabi sparsi nel Meridione d'Italia erano ormai entrati in crisi, soprattutto dopo il fallimento dell'offensiva contro la Calabria del 1031. Diretta conseguenza della disfatta araba in Calabria è il tentativo bizantino di riconquistare l'isola. A portare avanti il progetto c'è Giorgio Maniace e i Normanni giungono inizialmente al suo soldo: tra il 1037 e il 1045, la spedizione riesce a giungere fino a Troina. È a questo punto che vari capi militari arabi fondano poteri autonomi, finché Ibn al-Thumna non ricerca l'ausilio dei Normanni stanziati tra Puglia e Calabria. Quelli che egli considera solo dei mercenari finiranno per prendere l'isola e fondare il futuro regno di Sicilia.  Con l'occupazione di Messina da parte di Roberto il Guiscardo e del fratello Ruggero, iniziò la riconquista cristiana della Sicilia. Ruggero d'Altavilla, ultimogenito di Tancredi d'Altavilla, assieme ai suoi fanti e cavalieri "cattolici", professionisti della guerra, provenienti dalle complesse realtà geopolitiche dell'odierno Meridione d'Italia, e che ormai avevano poco in comune con i loro antenati Vichinghi (fase storica tra i secoli VII e IX), misero dunque piede in Sicilia nel 1061. Dopo aver conquistato Cerami, Troina ed altre città, si impadronirono di Catania nel 1071 e di Palermo nel 1072. Erano ben armati, anche se scarsi di numero, e avevano l'appoggio della marina pisana.

Il nuovo Stato

Già con la conquista di Palermo vengono fissati i ruoli su cui si fonderanno i futuri rapporti di potere: i musulmani avrebbero conservato i propri giudici, mentre Roberto si attribuisce il titolo di malik, la parola che in arabo indica il re, come testimoniano i numerosi tarì d'oro, le monete da lui coniate. Nel portare a termine l'opera di conquista, il Gran Conte Ruggero si preoccupa di installare vescovi francesi nel territorio: l'alleanza con papa Urbano II ha condotto a quell'esperienza unica di privilegio concesso dal papa ai Normanni, investiti della sua fiducia nella scelta dei vescovi sull'isola, che fu l'Apostolica legazia. Diverso è il peso che viene dato alle diverse popolazioni: musulmani e cristiani di rito basiliano vengono iscritti nelle platee (cioè nelle liste contenenti un inventario dei possedimenti e degli abitanti relativi) come "villani": a loro non è concesso portare armi addosso e sono anche negati i diritti politici. Inoltre, devono pagare un canone sulla terra, che è divisa a parecchiate (corrispondenti ad una misura variabile, che va dai 14 ai 50 ettari). Da questa politica, risultano favoriti gli immigrati latini. Nel 1101, muore Ruggero. Nel 1112, in piena reggenza, sua moglie, Adelaide del Vasto (il cui matrimonio con il condottiero normanno è frutto dell'alleanza tra questi e gli Aleramici), insedia la capitale dell'isola a Palermo: i grandi feudi non vengono più ammessi e l'isola diviene una sorta di grande demanio a disposizione del re (a lui, ad esempio, è riservata la caccia).

Il ritorno del Cristianesimo

Non c'è dubbio che i Normanni ripristinarono il culto cristiano sull'isola. Bisogna però sottolineare che Ruggero e Adelaide favorirono non poco l'istituzione e la costruzione di monasteri di rito greco, comunque sottomessi a vescovi latini, ma poi riuniti sotto l'autorità dell'archimandrita del Salvatore di Messina e ciò proprio mentre l'ellenismo sta retrocedendo nel Meridione d'Italia.


La nascita del regno di Sicilia

Nel 1130, Ruggero II d'Altavilla cingeva la corona di re di Sicilia. Cominciava così un regno caratterizzato dalla convivenza di varie etnie e diverse fedi religiose, una specie di stato federale con un primo parlamento, creato nel 1129, e l'organizzazione del catasto secondo una moderna concezione. Fu creata anche la contea di Ragusa, affidata a Goffredo d'Altavilla. Ai due Ruggero successero Guglielmo I (detto il Malo) e Guglielmo II (detto il Buono), i quali tentarono di opporsi alle mire dell'imperatore Federico Barbarossa, deciso ad annientare il Regno dei Normanni in Sicilia. Un matrimonio di stato fra Enrico VI, figlio dell'imperatore Federico Barbarossa, e Costanza d'Altavilla, figlia di Ruggero II, nel 1185 aprì la strada alla conquista sveva. Nel 1194, con la morte di Guglielmo III, l'isola veniva conquistata dal sovrano tedesco.

Luoghi di influenza

I normanni a Catania

Catania, sotto la dominazione normanna, ebbe un periodo di rinnovato splendore sotto la guida del vescovo benedettino Ansgerio voluto dallo stesso Gran Conte Ruggero.

I normanni a Messina

Sotto il dominio normanno, Messina si riprese economicamente e demograficamente e godette, da allora, di un lunghissimo periodo di opulenza, che la vide patria di importanti personaggi (come il grande pittore quattrocentesco Antonello da Messina). A partire da questo periodo e per lungo tempo, Messina esercita il ruolo di metropoli della Sicilia orientale e della Calabria, punto di riferimento sotto gli aspetti economico, politico, militare, culturale, artistico e religioso rispetto a centri di minori dimensioni ed importanza quali Reggio Calabria, Catania, Siracusa con tutte le altre città calabresi e con quelle della Sicilia orientale. La città ottenne sin da epoca normanna numerosi privilegi dai Re di Sicilia, che ne esaltarono il ruolo già rilevantissimo del porto, facendola divenire capitale economica della Sicilia e, al pari di Palermo, capitale del Regno.

I normanni a Palermo

La rilevanza della civiltà normanna a Palermo è visibile attraverso gli edifici più importanti della città, come la Chiesa della Martorana e la Cappella Palatina. Il geografo arabo Edrisi, nel libro dedicato a re Ruggero, ci ha lasciato la testimonianza di questo magnifico periodo di fasti e ricchezza. Anche fuori della città, di incomparabile bellezza restano testimoni dell'epoca normanna il duomo di Monreale e la cattedrale di Cefalù.

I normanni a Siracusa

Nel 1086, inizia la dominazione normanna a Siracusa, divenuta caposaldo della cacciata araba dall'isola. La città diviene una roccaforte militare, grazie alla sua posizione strategica. La politica del re Ruggero determina, inoltre, la costruzione di nuovi quartieri nell’isola e il rimaneggiamento della cattedrale nonché il restauro di diverse chiese, seguendo una politica di rinascita cristiana.

I rapporti con gli arabi

La conquista normanna dell'isola non coincise con l’eliminazione dell'elemento musulmano, numericamente ancora consistente, malgrado le molte migrazioni verso il Maghreb, la Spagna e l'Egitto. I Normanni, sul piano politico, economico e giuridico, conservarono molti elementi dell’organizzazione musulmana, e la cultura islamica continuerà ancora a caratterizzare le vicende sociali e politiche almeno fino alla prima metà del XIII secolo. Molto influente è l'elemento arabo nell'architettura, come testimoniano a Palermo gli edifici di numerose chiese e soprattutto il palazzo reale normanno detto "la Zisa". Il dibattito tra gli studiosi è stato prevalentemente incentrato sull’entità e sulla stessa origine di questi apporti: Michele Amari, ipotizzando una comunità col passato islamico, sosteneva che i Normanni avessero a modello gli emiri kalbiti; di recente, Jeremy Johns distingue tra l’eredità del passato islamico della Sicilia e specifici elementi nordafricani quali il diwan, la firma reale, la scrittura reale, l’architettura e la decorazione dei palazzi importati dall’Egitto fatimida solo dopo l’istituzione del Regno nel 1130.

(1513-1716)

La dominazione spagnola in Sicilia iniziò il 23 gennaio 1516, con l'ascesa al trono di Spagna Carlo V, e si concluse il 10 giugno 1713, con la firma della pace di Utrecht, che sancì il passaggio dell'isola da Filippo V a Vittorio Amedeo II di Savoia.

Gli Asburgo

Sofonisba Anguissola, Filippo II. Alla morte di Ferdinando II di Aragona e di Isabella di Castiglia, la Sicilia e il regno di Napoli furono incorporati nella nuova corona di Spagna, che venne ereditata dal giovane Carlo V. Dal 1516 in poi, i due regni sono tenuti da re stranieri mentre sono amministrati sul territorio da distinti viceré. Da 1516 al 1700 la Sicilia fu retta dalla dinastia degli Asburgo. Dall'imperatore Carlo, i regni dell'Italia meridionale furono ceduti al figlio Filippo nel 1556, due anni prima della propria morte. Successivamente, la Sicilia venne governata da Filippo III (1598-1621), Filippo IV (1621-1665) e Carlo II (1665-1700).

Carlo V

Nel 1548, Ignazio de Loyola fondò a Messina il primo Collegio dei Gesuiti al mondo, il famoso Primum ac Prototypum Collegium ovvero Messanense Collegium Prototypum Societatis Iesu, primo e quindi prototipo di tutti gli altri collegi di insegnamento che i Gesuiti fonderanno con successo nel mondo facendo dell'insegnamento la marca distintiva dell'Ordine. Il Collegium in seguito si trasformerà nel Messanense Studium Generale ossia l'Università di Messina.

Filippo III

Nel 1571, dal porto di Messina partì la flotta cristiana, al comando di Don Giovanni D'Austria, che sconfisse i Turchi nella Battaglia di Lepanto, e sempre il suo porto accolse la flotta al rientro dalla vittoriosa spedizione. Tra le persone ferite sbarcate dalla flotta c'era Miguel de Cervantes, che rimase ricoverato nel Grande Ospedale della città per diversi mesi a causa della ferita riportata, alla mano sinistra, in battaglia.

Filippo IV

Nel 1638, l'Università di Messina fondò l'ortus Messanensis, il più antico della Sicilia e chiamò Pietro Castelli, da Roma, per realizzarlo, con cui collaborò Marcello Malpighi. Nel 1647, la Sicilia fu protagonista di una rivolta contro il fiscalismo troppo pressante del governo spagnolo. Catania e Messina furono i centri più attivi, ma solo l'ultima ottenne dei risultati: chiese la protezione del re francese Luigi XIV, riuscendo così a mantenersi indipendente dall'impero spagnolo anche se con gravissime difficoltà. Nel 1678, però, con la firma della pace di Nimega tra Francia e Spagna, la città venne abbandonata a sé stessa dai francesi e subì una crudele riconquista da parte della Spagna. Rioccupata, Messina fu dichiara morta civilmente e privata di tutti i privilegi storici goduti sin dai tempi di Roma.

Carlo II

Sotto il regno di Carlo II, la Sicilia fu sconvolta dal terremoto del Val di Noto del 1693, che rase al suolo decine di città, tra cui Catania, Siracusa e Noto, e d'altro canto, contribuì alla nascita del barocco siciliano.

I Borboni

Hyacinthe Rigaud, Filippo V. Per approfondire, vedi la voce Storia della Sicilia borbonica. Con la morte di Carlo, Filippo V di Borbone salì al trono. Ben presto perdette il regno ad opera degli Asburgo d'Austria nella guerra di successione spagnola, di fatto nel 1707, formalmente nel 1713 con la pace di Utrecht.

(1713-1718)

La dominazione piemontese in Sicilia iniziò il 10 giugno 1713, che sancì il passaggio dell'isola da Filippo V a Vittorio Amedeo II, e si concluse nel 1720, quando Carlo VI invase l'isola e la scambiò con la Sardegna. In occasione del trattato di Utrecht, dopo varie guerre che avevano messo in ginocchio l'Europa, la Casa Savoia ottenne grandi vantaggi, tra cui il titolo regio e l'intera Sicilia: il 10 giugno 1713, infatti, la Spagna firmò il documento di cessione dell'isola ai Savoia sotto la pressione dell'Inghilterra. Le condizioni imposte da Filippo V di Spagna per la cessione della Sicilia erano le seguenti: 1.La Casa Savoia non avrebbe mai potuto vendere l'isola o scambiarla con un altro territorio. 2.La Sicilia sarebbe stata mantenuta come feudo della Spagna: estinto il ramo maschile dei Savoia, essa sarebbe tornata alla corona di Madrid. 3.Tutte le immunità in uso in Sicilia non sarebbero state abrogate. In realtà, solo gli ultimi due punti furono accettati da Vittorio Amedeo II. All'ultimo momento, Filippo V fece aggiungere un ultimo punto, secondo cui: 1.il Re di Spagna sarebbe stato in grado di disporre a suo piacimento dei beni confiscati ai sudditi siciliani rei di tradimento. Vittorio Amedeo volle accondiscendere anche a questo punto, per evitare che una protesta del duca potesse rinviare la stesura dei trattati. Il documento con cui si cedeva la Sicilia ai Savoia venne siglato il 13 luglio successivo. Gli araldi lo stesso giorno percorsero Torino annunciando l'acquisizione del titolo regio da parte di Vittorio Amedeo. Una folla esultante si accalcò davanti al palazzo ducale acclamando il re, che uscì dal balcone brindando insieme alla folla. Il 27 di quello stesso mese, Vittorio Amedeo II, in procinto di partire per la Sicilia, nominò suo figlio Carlo Emanuele, principe del Piemonte, luogotenente degli Stati di terraferma; ma il ragazzo non aveva che sedici anni e fu dunque assistito da un Consiglio di Reggenza. Il 3 ottobre il nuovo re salpò da Nizza alla volta di Palermo, ove sbarcò circa venti giorni dopo. Il 24 dicembre, dopo una sontuosa cerimonia nella Cattedrale di Palermo, Vittorio Amedeo II e la moglie Anna Maria di Orléans ricevettero la corona regia. Al parlamento siciliano egli così si espresse in una delle prime sedute: « I nostri pensieri non sono rivolti ad altro che a cercare di avvantaggiare questo Regno per rimetterlo, secondo la Grazia di Dio, al progresso dei tempi, riportarlo al suo antico lustro e a quello stato cui dovrebbe aspirare per la fecondità del suolo, per la felicità del clima, per la qualità degli abitanti e per l'importanza della sua situazione. » I buoni intenti del re vennero messi in pratica nella lotta contro il brigantaggio, nello sviluppo della marina mercantile e nella riorganizzazione finanziaria e dell'esercito (per il quale venne preso a modello quello piemontese). La permanenza del re in Sicilia durò fino al 7 settembre 1714.

La ripresa spagnola

La pace di Utrecht, con tutto ciò che comportò, fu soltanto un evento transitorio nella storia piemontese. La Spagna, infatti, stava fortemente riarmandosi. Intimorite da tanta potenza, Francia, Olanda, Inghilterra e Austria strinsero via via legami difensivi tra di loro. Vittorio Amedeo II, quando ricevette la notizia della creazione di una possibile Quadruplice Alleanza, si sentì nuovamente in pericolo. Era infatti in progetto, tra i sovrani alleati, di mettere a tacere le mire spagnole in Italia, ma tale progetto si scontrava contro le mire di Casa Savoia. L'Austria, in particolare, progettava di eliminare i piemontesi dalla Sicilia. Vittorio Amedeo decise di agire con astuzia, inviando messi a Vienna e a Londra per essere costantemente informato delle novità nella politica estera. Se i paesi alleati avessero davvero siglato un'alleanza, allora Vittorio Amedeo sarebbe stato seriamente nei guai, circondato da tutti i fronti. Dopo aver in ogni modo cercato di allearsi all'Austria (anche ricorrendo ad una proposta di matrimonio), Vittorio Amedeo venne attaccato sul fronte siciliano dagli spagnoli, che egli considerava alleati. La Sicilia venne invasa da 30.000 soldati stranieri e le poche fortezze piemontesi dovettero desistere dalla difesa. Da Vienna arrivò la proposta di aderire alla ormai siglata Quadruplice Alleanza in cambio del titolo di Re di Sardegna. La distruzione dell'imponente flotta spagnola e la conseguente vittoria della Quadruplice Alleanza permise a Vittorio Amedeo di mantenere un titolo regio. Era il 1718 e l'erede di Casa Savoia veniva incoronato Re di Sardegna. La maggiore vicinanza di quest'isola la rendeva meglio gestibile e controllabile della Sicilia, cosicché si può dire che il cambio si sia rivelato vantaggioso per Vittorio Amedeo.

(1734-1860)

Dopo il Congresso di Vienna del 1815 che restaurò i monarchi europei sul trono che avevano perduto durante l'epoca napoleonica, il re Ferdinando I°, già re Ferdinando IV di Napoli e di Sicilia, si fece attribuire il Regno di Napoli che aveva perduto nel 1806 e l'8 dicembre 1816 unì i due regni creando così il Regno delle Due Sicilie. La soppressione formale del Regno di Sicilia fece nascere in tutta la Sicilia un movimento di protesta e il 15 giugno del 1820 gli indipendentisti insorsero e istituirono un governo a Palermo (18-23 giugno), presieduto dal principe Paternò Castello, il quale ripristinò la Costituzione approvata nel 1812 con l'aiuto degli Inglesi. Il re inviò un esercito, sotto gli ordini di Florestano Pepe e Pietro Colletta, il 7 novembre 1820 riconquistando l'isola e ristabilendo la monarchia assoluta. Un altro moto indipendentista scoppiò a Palermo nel 1848, promosso dalla massoneria liberale che combatté l'assolutismo monarchico e gli interessi britannici che miravano ad avere un protettorato siciliano. Fu guidato da Vincenzo Fardella di Torrearsa, Ruggero Settimo e Francesco Paolo Perez. Il re concesse la costituzione mentre l'indipendentismo venne represso. Malgrado questi avvenimenti, negli anni del Regno delle Due Sicilie, la Sicilia conobbe un grande sviluppo economico ed industriale, diventando una delle regioni più ricche d'Italia. Il Regno delle Due Sicilie, secondo l’Exposition Universaille de la science di Parigi, era tra il 1855 e il 56 il terzo stato più industrializzato del mondo dopo l'Inghilterra e la Francia e aveva la terza flotta commerciale del mondo.Aveva,inoltre,un buon sistema di comunicazione stradali e persino ferroviarie (dopo la Napoli-Portici che fu la prima ferrovia costruita nell'attuale territorio italiano, fu realizzata dai Borboni la Messina-Catania) che consentivano il trasporto delle merci ai porti mercantili di Catania, Riposto, Messina che erano fra i più attivi del Mediterraneo.
Il commercio dello zolfo (il petrolio dell'epoca), del sale, della seta, dell'argento, dei marmi, degli agrumi, del grano (la Sicilia sin dal tempo dei Romani era il "granaio d'Europa") l'industria e l'ingegneria marittima, facevano dell'isola una delle più ricche ed industrializzate regioni d'Italia. Il Banco di Sicilia e quello di Napoli avevano assieme i due terzi dell'oro e della ricchezza di tutta l'Italia: gli stati più poveri invece erano in nord Italia dove era presente anche una grande emigrazione verso l'America meridionale (in particolare, l'Argentina). La migrazione a quel tempo non esisteva al Sud, dove era assai modesta. Con l'annessione al Regno del Piemonte 1860, al posto delle monete d'oro e d'argento fu introdotta la carta-moneta, il servizio di leva obbligatorio, la tassa sul grano macinato, quindi sul pane e sulla pasta (che era il cibo dei poveri). Per una politica sabauda filo-francese furono chiuse persino le cave d'argento come quella di Allume in provincia di Messina che dava lavoro ad 800 operai. Fu distrutta l'industria del baco da seta per consentire che nelle regioni del lombardo-veneto, appena uscite dalla dominazione asburgica, potessero decollare le industrie manufatturiere grazie anche ad una politica di crediti concessi dal governo sabaudo che incamerò anche il tesoro del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli unendo le due antiche banche in una sola banca per un certo periodo di tempo. Furono anche abbandonate le vie di comunicazione (strade e ferrovie) che consentivano il trasporto delle merci nei porti che, ben presto, sforniti di merci, persero importanza.

(dal 1860)

Il 21 ottobre 1860 nel Regno delle Due Sicilie si svolse il plebiscito per decidere l'annessione al Piemonte. In Sicilia, su 2.232.000 abitanti, gli iscritti alle liste elettorali erano circa 575.000. Si presentarono a votare in 432.720 (il 75,2 % degli aventi diritto), di cui 432.053 si dichiararono favorevoli e 667 contrari. La virtuale unanimità ottenuta dai favorevoli all'annessione, che venne peraltro riscontrata in tutti i plebisciti svolti nei vari stati preunitari, non ha mancato di sollevare forti dubbi sulla genuinità e sulla correttezza delle operazioni elettorali. Nel caso della Sicilia, inoltre, in tanti si erano illusi di una totale autonomia di governo basandosi sul fatto che nel primo periodo Garibaldi aveva proclamato la sua "dittatura" sulla regione occupata.

Prime delusioni

Le classi più povere, i braccianti e i contadini avevano sperato che il nuovo ordinamento avrebbe assicurato la distribuzione delle terre dei latifondi e dei feudi della chiesa; ma i più si ritennero ingannati quando si resero conto che non sarebbe stata effettuata alcuna riforma agraria. Il Conte Camillo Benso di Cavour, che avera fretta di definire l'atto di annessione nel timore di un intervento militare delle potenze amiche dei Borboni, scavalcando Garibaldi e le sue promesse, estese alla regione le leggi e i regolamenti in vigore nel Regno di Sardegna. Venne ignorato del tutto il fatto che la Sicilia godesse già di leggi speciali e di una certa forma di autonomia sotto i Borboni, ottenute anche a seguito di precedenti rivolte popolari, e furono trascurate le spinte autonomistiche che la Sicilia aveva sempre manifestato nei confronti dei poteri centrali via via succedutisi. Tutto ciò provocò in poche settimane il passaggio dall’entusiasmo ad una vera e propria forma di ostilità per tutto ciò che sapeva di “piemontese”. Non fu certo una buona mossa neanche quella di inviare funzionari e amministratori del nord in Sicilia con la motivazione che c’era troppa corruzione e clientelismo. Il loro modo di pensare era diverso da quello degli isolani e questo aggravava le incomprensioni. Oltre alla mancata distribuzione delle terre, promessa da Giuseppe Garibaldi, vennero introdotte nuove pesanti imposte come quella sul sale, sul macinato[senza fonte] (che colpiva prodotti basilari per l'alimentazione delle classi inferiori come il pane e la pasta) e venne attuata la coscrizione obbligatoria. In un mondo contadino in cui il numero di braccia era quello che faceva la quantità di raccolto, togliere alle famiglie soggetti giovani e in pieno vigore per il lungo servizio militare riduceva molte di queste alla disperazione. Il fatto era aggravato dalla mentalità locale che vedeva come disonorevole per la donna lavorare i campi o fare la spesa. Inoltre i renitenti e i disertori, dandosi alla macchia, finivano con l'ingrossare le file della malavita.

Il banditismo e lo sviluppo della mafia

La nuova struttura amministrativa della regione e la creazione di ben quattro nuovi organismi di polizia lungi dal rivelarsi positivi misero le premesse per la rapida perdita del controllo del territorio, ben conosciuto dalla vecchia polizia borbonica ma spesso incomprensibile ai nuovi funzionari del nord, e favorirono il dilagare della corruzione, degli intrallazzi e della guerra tra bande criminali. È in questo periodo che compare in maniera evidente il termine mafia. Nel 1863 ottiene un grande successo una commedia dal titolo “I mafiusi di la Vicaria” ambientata nella prigione di Palermo.

La mafia, da alcuni chiamata anche "maffia" (che tuttavia è un termine più toscano che siciliano[senza fonte]) esisteva già da tempo; secondo alcuni dalla dominazione araba, secondo altri dal periodo spagnolo e dell'Inquisizione e, secondo altri studiosi, addirittura dal periodo della dominazione romana per il controllo del "granaio di Roma" e dei suoi schiavi. C'è tuttavia da segnalare come, Antonino Traina, nel suo vocabolario Siciliano-Italiano del 1868, defineva la parola Mafia: «Neologismo per indicare azione, parole o altro di chi vuol fare il bravo»; non faceva dunque cenno alcuno alla criminalità organizzata, ma precisamente ad un atteggiamento arrogante, spocchioso, insolente. Ora che si “ufficializza” come sistema di difesa dei proprietari terrieri contro i furti, o come sistema dei campieri-gabellotti per intimidire gli stessi proprietari, diventa piano piano anche il mezzo mediante il quale le autorità piemontesi, impotenti a governare il territorio, tengono a freno ogni velleità di rivolta mettendo a capo dei municipi i "capi-rais" o personaggi indicati da questi. Il nuovo ceto politico capisce che gli conviene fare patti di mutuo interesse con il mafioso locale. Questi amministra la sua giustizia, anche sommaria, risolvendo problemi che l’amministrazione venuta dal nord non riesce neanche ad inquadrare; sopperisce, col suo paternalismo interessato, a risolvere problemi che lo stato invece accentua e agli occhi del popolano più misero risulta quindi più efficiente e “giusto” È forse questa l'origine della sfiducia verso lo stato, che appare lontano e vessatorio. I notabili locali e le nuove classi dirigenti si adattarono presto alle nuove regole, divennero presto convinti fautori, per proprio tornaconto, dell'annessione al regno piemontese, alcuni anche per mantenere i vecchi privilegi. Perfino la tardiva distribuzione delle terre del latifondo e dei feudi ecclesiastici, iniziata nel 1861, a gente troppo misera, che finiva con l'indebitarsi per acquistare le sementi ed era costretta a svendere le terre stesse per debiti, sortì solo l'effetto di riformare i latifondi con nuovi proprietari ed acquirenti e, per giunta, a prezzi stracciati. Il romanzo “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, "I Viceré" di Federico de Roberto e i romanzi di Giovanni Verga illustrano bene tutto ciò.

La Sicilia sotto la legge marziale

Di lì a qualche anno, nel 1863, la Sicilia si trovò sotto la legge marziale del generale Govone, con la facoltà di fucilare la gente sul posto. Venne preferita infatti la repressione sommaria e dura, arrestando la gente senza processo ed usando anche la tortura per vincere l'omertà. Le repressioni non colpivano selettivamente ma anche la semplice renitenza alla leva provocava durissime ritorsioni contro la popolazione di interi villaggi che venivano privati dell'acqua potabile. Scrive il Correnti nella sua Storia della Sicilia che ad un giovane sarto palermitano, Antonio Cappello, sordomuto dalla nascita, vennero inferte 154 bruciature con ferri roventi perché ritenuto simulatore dagli ufficiali piemontesi della visita di leva. Alla fine del periodo si contavano oltre 2500 morti e la condanna di quasi tremila banditi. Ciò che di fatto mancava alla Sicilia allora come nel passato era una classe borghese colta e “illuminata” che sapesse cogliere le occasioni migliori; al suo posto invece c'era una nuova classe politica fatta di opportunisti e "nuovi ricchi" al servizio dei notabili piemontensi alleati a quella parte di aristocrazia sonnolenta che viveva sperperando le rendite del latifondo. Nel carattere dei siciliani si avvertiva l'influenza di oltre quattrocento anni di dominazione spagnola e non c’era stata in Sicilia alcuna rivoluzione francese a cambiare le cose e l’Inquisizione era stata abolita solo mezzo secolo prima.

Le rivolte indipendentiste

L’esperienza "carbonara" rivoluzionaria del 1848, con il suo scontato epilogo, aveva già rivelato la debolezza della classe colta e borghese di Sicilia quando il governo provvisorio presieduto da Ruggero Settimo si era sfaldato tra i contrasti delle varie fazioni monarchica, repubblicana, autonomista e federalista. Così, dopo la blanda repressione, che ne era seguita con il cannoneggiamento di Messina ad opera della marina borbonica, erano nati altri progetti di insurrezione. Un esule siciliano a Torino, il La Farina nel 1857 aveva fondata la Società Italiana col motto ”Indipendenza, Unità, Casa Savoia”; l’insurrezione di Francesco Riso nell’aprile 1860 a Palermo aveva convinto ad intervenire l'indeciso Garibaldi (massone al servizio degli inglesi come il Mazzini col quale si era incontrato a Londra[senza fonte]) mentre nel porto ed a largo di Palermo c'erano i brigantini inglesi. Gli inglesi sin dall'occupazione napoleonica di Napoli avevano preso a "protezione" la Sicilia, sviluppando attività economiche come quelle connesse all'industria del tonno e della trasformazione agrumaria. Dopo la delusione per l'annessione della Sicilia, anziché di una autonomia federalista, come si sperava, fu ulteriore occasione di malcontento, nel 1862, il fatto che all’Aspromonte, Garibaldi, che in Sicilia aveva reclutato i volontari, fu affrontato e ferito, proprio perché a sparare furono i “piemontesi”. Un ulteriore aggravamento di ostilità verso “lo stato” lo alimentava l'atteggiamento della Chiesa, scomunicando coloro che acquistavano le terre confiscatele con la legge delle Guarantigie, nonché la gestione spesso scandalosa e corrotta delle procedure di vendita. Nel 1866, scoppiò a Palermo l'ennesima rivolta, la Rivolta del sette e mezzo, anche in conseguenza di tali vendite irregolari, che avevano fruttato oltre 600 milioni di lire e che furono utilizzate, come annunciò pubblicamente il 16 marzo 1876 il primo Ministro Marco Minghetti, per pareggiare il bilancio dello Stato sabaudo. Le proprietà ecclesiastiche vendute davano lavoro a migliaia di contadini, che così persero la loro unica fonte di reddito. La rivolta venne sedata dalle truppe del generale Raffaele Cadorna, con i soliti mezzi sbrigativi. Scriveva Garibaldi nel 1868 ad Adelaide Cairoli "... non rifarei la via del sud, temendo di essere preso a sassate...". Egli aveva promessa la terra ai contadini ma quanto promesso non era poi stato mantenuto.

Il crollo economico della Sicilia

Gli investimenti inglesi dei Withaker, dei Woodhouse, degli Ingham e di altri avevano stimolato un certo fervore di ripresa economica. Nelle aree del trapanese si erano sviluppati i settori vinicolo e agroalimentare e, nella Sicilia centrale, quello del commercio dello zolfo. Negli anni quaranta dell'ottocento, gli Ingham e i Florio avevano costituito una Società per la produzione di derivati dello zolfo e una per i battelli a vapore siciliani. Era il 1853 quando il piroscafo "Sicilia" partiva per l'America. Le imprese Ingham importavano velluti e tessuti stampati da Leeds, in società con gli Smithson di Messina, ed estendevano la loro attività al commercio dell'olio, della liquirizia e degli agrumi. Dato che nell'ottocento la Sicilia era dotata solo di Banchi pubblici di deposito che non esercitavano il credito produttivo, importante era l'attività bancaria degli Ingham, dei Gibbs e di altri uomini di affari inglesi che concedevano crediti agli altri mercanti, agli aristocratici siciliani ed alla borghesia emergente. Le esportazioni di vino del trapanese giungevano, negli Stati Uniti d'America, a Boston, New York, Filadelfia, Baltimora e New Orleans, nel Brasile, in Australia e persino a Sumatra nell'arcipelago della Sonda. E attraverso la Casa di Commercio di Palermo degli Ingham si realizzava un vasto giro di affari per la fomitura di sommacco e di zolfo. Il Regno delle due Sicilie non aveva un elevato debito pubblico al momento della sua caduta, anche a causa della bassa quantità di investimenti in opere di modernizzazione; al contrario, il Regno di Sardegna ne aveva uno molto elevato anche a causa delle guerre sostenute contro gli austriaci. In seguito all'Unità venne unificato anche il debito, facendo gravare anche sui contribuenti meridionali gli investimenti effettuati in Piemonte nel corso degli anni '50 del secolo. I fondi del Banco delle Due Sicilie, che era la Banca nazionale del regno borbonico, (443 milioni di Lire-oro, all'epoca corrispondenti al 65,7 del patrimonio di tutti gli Stati italiani messi insieme) vennero incamerati dal nuovo stato italiano concorrendo a costituire il capitale liquido nazionale nella misura di 668 milioni di Lire-oro. L'istituto fu poi scisso in Banco di Napoli e Banco di Sicilia, partendo con evidente perdita iniziale di competitività nei confronti delle imprese bancarie nazionali. Ad unità realizzata, con le politiche liberiste del nuovo Regno d'Italia, a cui erano state estese le metodologie di governo proprie del vecchio stato Sabaudo, entrarono in crisi i principali settori produttivi delle regioni meridionali e della Sicilia che perse i mercati tradizionali non reggendo più la concorrenza inglese e francese. La fiscalità, divenuta più gravosa rispetto a quella borbonica, finiva così col finanziare gli investimenti al nord. Sulle spalle dei siciliani, abituati ad unica tassa sul reddito che copriva tutte le spese pubbliche anche locali, si venivano a caricare le nuove tasse comunali, le nuove tasse provinciali, il focatico (che essendo una tassa di famiglia colpiva duramente le famiglie numerose), la tassa sul macinato (che affamava proprio i più poveri, quelli che, cercando di risparmiare macinando il proprio esiguo raccolto, incorrevano nella famelica imposta), la nuova tassa di successione ed altre cosiddette addizionali. Il nuovo stato, peraltro, era ancor più restio dei Borboni ad investire in Sicilia: ad esempio, dal 1862 al 1896 vennero investiti per opere idrauliche al nord 450.000.000 contro soli 1.300.000 in Sicilia. Mentre nel resto d'Italia si moltiplicavano le linee ferroviarie la Sicilia ebbe la sua prima, brevissima, Palermo-Bagheria solo nel 1863. Scriveva Francesco Saverio Nitti nel suo libro "Nord e Sud" che lo stato, nel 1900, spendeva 71,15 lire annue per abitante in Liguria e solo 19,88 per abitante in Sicilia, tutto ciò mentre sul totale di lire 111.569.846 di debito pubblico dello stato il Piemonte concorresse per 61.615.000 lire e la Sicilia solo per 6.800.000. La politica liberista dei governi unitari fu quella che aggravò maggiormente la situazione economica della Sicilia, ridotta così a colonia del Piemonte. Con la politica del libero scambio venne disincentivata la produzione della seta siciliana e del tessile locale, troppo frammentati, a vantaggio della grossa impresa del nord e così avvenne anche per la locale industria alimentare; perfino i settori dell’industria pesante decaddero per mancanza di commesse e fondi.
Se ne avvantaggiava soltanto la produzione del grano, del vino e degli agrumi, che venivano esportati durante la guerra di secessione. Anche questo durò soltanto fino al 1887, quando il cambiamento della strategia del governo italiano, da liberista a protezionista, e la guerra doganale finirono con l'assestare il colpo di grazia all'economia oramai essenzialmente agricola della Sicilia, privandola dei suoi mercati. Furono anni in cui avvenne un progressivo spopolamento, per fame, delle campagne. È proprio in questa serie di fattori che si individua da più parti il sorgere della mai più risolta questione meridionale.

Lo spopolamento delle campagne e l'emigrazione

Le città relativamente piu’ ricche, soprattutto quelle della costa orientale, con l'afflusso costante di gente in cerca di lavoro proveniente dall'interno, videro incrementare la loro popolazione e con essa i loro problemi sociali. La popolazione di Catania che nel 1861 era di 68.810 abitanti, nel 1880 aveva gia superato le 90.000 unità. In quest’ultima città erano avvenuti consistenti investimenti a partire dagli anni settanta nel settore industriale della raffinazione dello zolfo che si avvantaggiava della presenza del porto per la sua commercializzazione. Iniziava anche lo sviluppo delle ferrovie a supporto della stessa, (infatti la stazione della Società per le Strade Ferrate della Sicilia venne costruita nella stessa zona delle raffinerie) e il 3 gennaio 1867 veniva aperto il tronco ferroviario Giardini-Catania della ferrovia Catania –Messina il cui primo tratto era stato inaugurato l’anno prima. L'attività la Camera consultiva commerciale di Catania che era nata nel 1853, in un contesto difficile quale lo era quello burocratico del governo borbonico, con le sue iniziative e le sue pressioni promosse il potenziamento delle infrastrutture essenziali come le poste, le banche e i collegamenti marittimi e stradali (al tempo era ancora difficile la comunicazione via terra con Siracusa). Venne tentata, con la costituzione di una Società di irrigazione del Simeto del barone Spitaleri, la coltivazione del cotone in alcune zone della Piana di Catania e la coltivazione del riso, ma soprattutto quest'ultima si rivelò un'iniziativa fallimentare. L'attività imprenditoriale cercò allora altre alternative introducendo nelle aree più idonee, quelle etnee e collinari della Sicilia orientale la coltivazione su vasta scala degli agrumi, trasformando ampie zone fino ad allora coltivate a vigneto.
Fu così che, mentre perdurava il banditismo e il malessere sociale, nascevano i primi fermenti di coscienza sociale e collettiva; nel 1892, dopo un congresso operaio a Palermo, nacquero i Fasci dei lavoratori. Presto venivano reclamate la divisione delle terre ai contadini e la soppressione dei “gabellotti”. Nel 1893 tuttavia scoppiarono gravi sommosse nell’isola; la componente anarchica sfociava in eccessi e ciò diede al Crispi, siciliano, ex garibaldino, divenuto capo del governo nel 1894 il motivo per scatenare una durissima repressione con lo scioglimento dei “Fasci”. Il sottosviluppo, l’analfabetismo, l’alta mortalità infantile e la malaria uniti alle spaventose e disumane condizioni di lavoro nelle zolfare disseminate in tutte le province medio-orientali della Sicilia e all’estrema miseria dei villaggi di pescatori delle zone costiere fecero sì che il governo nazionale, a partire dal 1882, incentivasse l’emigrazione verso il nord America, soprattutto gli Stati Uniti e il verso il Brasile e l’Argentina nel sud America. Le statistiche affermano che tra il 1871 e il 1921 quasi un milione di siciliani abbiano lasciato l’isola.

Dalla fine del secolo alla prima guerra mondiale

Gli ultimi decenni del secolo vedevano la regione ancora priva di infrastrutture viarie e ferroviarie efficienti. La compagnia ferroviaria Vittorio Emanuele concessionaria per le costruzioni e l'esercizio ferroviario nell'isola era in forte ritardo sul programma tanto che dovette intervenire direttamente lo Stato per la prosecuzione di molti lavori. Le linee ferroviarie realizzate più che per collegare i centri urbani erano realizzate spesso con un lungo percorso che teneva conto solo degli interessi commerciali degli investitori, spesso stranieri; così per andare da Palermo a Messina si doveva passare da Girgenti e Catania, la linea Palermo-Tra¬pani era funzionante dal 5 giugno 1881, con i suoi 195 km, ma passando per Mazara del Vallo e Marsala, quasi il doppio del percorso. Ancora nel 1885 questa linea rappresen¬tava un ter¬zo di tutta la Rete Sicula; solo nel 1937 Trapani venne raggiunta direttamente. Tutto il sistema ferroviario alla lunga risultò essere stato progettato e realizzato solo in funzione del trasporto ai porti d'imbarco dello zolfo, dei vini e degli agrumi, con effetti per la mobilità e per lo sviluppo che perdurano fino ad oggi. In più, per scopi clientelari, i percorsi venivano allungati o deviati per raggiungere il fondo o la tenuta di Baroni e latifondisti. Lo sviluppo del commercio dei filati a Catania attirava immigrati da tutta la provincia; oltre 20.000 tessitori ormai lavoravano nelle filande del capoluogo, e il Banco di Sicilia vi aprì la sua prima filiale. Un rapporto del 1887 del Gentile Cusa registra ciò evidenziando l'assenza di emigrazione verso l'estero dal catanese, a differenza del resto della Sicilia. Verso la fine del secolo, anche grazie all'apporto di capitale straniero e ai finanziamenti delle banche si svilupparono, nel sud della Sicilia e a Catania, raffinerie di zolfo e industrie chimiche ad esso collegate,attività molitorie, come i grandi Mulini Prinzi di Catania che importavano grano ed esportavano farine; il cotonificio De Feo che impiegava oltre 480 addetti e nel 1897 produceva 1500 Kg di filati al giorno; estesa era anche la produzione di mobili e di carrozze. La fine del secolo vide anche la costruzione della Ferrovia Circumetnea che trasportava merci e viaggiatori dalle zone attorno all'Etna verso Catania e il suo porto e contribuiva all'export dei vini etnei tramite il porto di Riposto. Vennero anche approntati progetti di linee tranviarie a servizio delle zone minerarie come la tranvia a vapore Raddusa Scalo-Assoro Scalo- Sant'Agostino e la Porto Empedocle-zolfare Lucia. La produzione del "fiore di zolfo" , cioè lo zolfo raffinato, ebbe il suo massimo nel 1899 quando la produzione siciliana raggiunse gli 8/10 di quella mondiale, grazie alle estrazioni massicce condotte nella Sicilia interna, soprattutto nelle grandi miniere dei bacini di Lercara, del nisseno e dell'agrigentino, di Floristella e di Grottacalda e delle altre miniere dell'ennese. Non era comunque ricchezza per tutti: la massima parte dei guadagni andava ai proprietari e agli investitori della Anglo-Sicilian Sulphur Co. mentre la grande massa di surfarara, donne e carusi versava in uno stato di miseria e sfruttamento ai limiti della schiavitù. Alla fine del secolo XIX infatti erano attive oltre 700 miniere che impiegavano una forza lavoro di oltre 30.000 addetti le cui condizioni di lavoro tuttavia rimanevano al limite del disumano.[1] In questo clima si svilupparono i Fasci che vennero repressi duramente dal governo di Francesco Crispi. Gli anni di fine secolo videro la nascita e lo sviluppo anche in Sicilia delle prime organizzazioni sindacali e l'inizio di scioperi per ottenere più umane condizioni di lavoro. Proprio gli zolfatari, più di tutti, parteciparono alla costituzione dei Fasci dei lavoratori: nel maggio 1891 si costituì il Fascio di Catania, nell'ottobre 1893 a Grotte, paese minerario in provincia di Agrigento, si tenne il congresso minerario. Al congresso parteciparono 1.500 fra operai e piccoli produttori. Gli zolfatari chiedevano di elevare per legge a 14 anni l'età minima dei carusi di miniera sfruttati fin'allora come schiavi, la diminuzione dell'orario di lavoro (che era praticamente dall'alba al tramonto) e il salario minimo. I piccoli produttori chiedevano provvedimenti che li affrancassero dallo sfruttamento dei pochi grossi proprietari che controllavano il mercato di ammasso ricavandone, loro, tutto il profitto. I Fasci tuttavia vennero sciolti d'autorità dal Governo Crispi all'inizio del 1894 dopo che negli scontri con l'esercito erano morti oltre un centinaio di dimostranti in un solo anno. [2]Il settore zolfifero era comunque entrato in crisi negli anni novanta e la società anglo-siciliana aveva spostato i commerci su Porto Empedocle dove i costi erano inferiori provocando serie ripercussioni sull'economia catanese. Nel 1901 le unità lavorative raggiunsero il livello massimo di trentanovemila con 540.000 tonnellate di minerale di zolfo estratto.
« I moti dei Fasci sono per noi come una propaggine del moto del 1860, inteso come " rivoluzione incompiuta". » (Mario Rapisardi) All'inizio del nuovo secolo XX la Sicilia si affacciava con grave carenza di infrastrutture (la maggior parte della rete ferroviaria interna venne infatti realizzata a partire dalla statalizzazione delle ferrovie dopo il 1905 e terminata alla soglia degli anni 30 quando il settore minerario era già in crisi profonda.